Ci ha spiazzati di nuovo. Non appena ci eravamo abituati alla nuova identità del Re (quella fredda, metallica, claustrofobica del 2003) ecco che Fripp la distrugge per l’ennesima volta, condendoci l’amarezza con le sue criptiche pagine di diario, in cui si intravedeva la possibilità che la fantastica avventura del Re Cremisi fosse giunta ad una fine. Ma questo è successo già parecchie volte, e i fan che tenevano duro, e l’attesa spasmodica di vedere se Fripp avrebbe nuovamente sfidato il tempo, e le chiacchiere “Che succederà adesso?” “Ma è vero che Belew ha mollato il gruppo?”, ecco, tutte queste cose non facevano altro che aumentare le aspettative sul lavoro presentato dall’improvvisa notizia che Fripp e Jakko Jakszyk, con la partecipazione di Mel Collins (!), con il solito Levin e con un'altra sorpresa (dietro le pelli, come già dagli ultimi concerti, c’è un certo Gavin Harrison, batterista di un gruppetto chiamato Porcupine Tree, a rimpiazzare Mastellotto. Questa scelta si rivelerà molto oculata) si erano costituiti in una nuova, inedita creatura che aveva tutti i numeri per sorprenderci.

Dicevo, l’attesa spasmodica di questo lavoro è stata ampiamente delusa. Nessuno si aspettava nulla del genere, e al solito i King Crimson si alienano i fan che si erano troppo abituati al sound precedente, riattirando quelli di più vecchia data e facendone di nuovi. Non nego di essere stato sorpreso anche io da tutto questo, ma con gli ascolti anche questa nuova incarnazione è sbocciata e ha mostrato i suoi petali.

Questo ProjeKct nasce da un’innocua jam di improvvisazione tra zio Bob e Jakko, a cui si sono poi inseriti, willing to contribute, come scrive Fripp, gli altri membri. Il lavoro dei Nostri rappresenta un (ulteriore) passo avanti per una delle tante creazioni di Monsieur Robert, i soundscapes. Infatti il tentativo è quello di ricondurre quella forma di espressione musicale così leggera ed eterea come i soundscapes ad una qualche forma canzone. Questo è il motivo per cui Jakko per i brani idea delle linee vocali tali che non intacchino la basilare struttura dello sfondo, e tutti gli strumenti seguono la linea data, utilizzandola come canovaccio per lanciarsi in puliti e sobri interventi e in linee melodiche alternative ma parallele. A tutto ciò fanno eccezione il flauto e i sax di Collins, che si lancia in delicate evoluzioni che lasciano un sentore notturno sui brani, così introspettivi e paragonabili a immensi dipinti a pastello. E così queste irripetibili creature in evoluzione, per una volta non basate sull’improvvisazione ma su un’idea base, costituiscono i sei pezzi di quest’opera che, tanto per cambiare, offre nuovi spunti e apre nuovi orizzonti a quella creatura in costante mutamento che è la Musica. 

Un’altra caratteristica inedita è la presenza dei fiati non come violento sbocco di liberazione, come in quasi tutti gli episodi precedenti, ma la loro presenza è gentile e delicata, come il tocco scarno e vario di Harrison, che senza eccedere in tecnicismi o rumorose valanghe di colpi, dipinge linee percussive che si intrecciano con gli esperti e lievi tocchi squisitamente para-jazz di Levin. Il cantato, arioso e profondo di Jakko è dolcemente appoggiato sui suoi aperti accordi. Su tutto però, con la mancanza di Belew, si assiste a una nuova riscoperta del Fripp solista. Oltre che guidare il pezzo coi soundscapes, infatti, il Maestro ci infila alcuni dei suoi inconfondibili soli, concepiti al solito per tritoni e come scale, rilassati e piani, imprevedibili nella loro ricerca del lato nascosto del buon gusto. Fripp si è sempre impegnato nell’eliminare un centro dell’esecuzione, ritmico, tonale o melodico, e qui sembra esserci andato pericolosamente vicino: le strutture sono decise in precedenza ma aperte a possibili interpretazioni, e tutti gli strumenti sono decorazioni del cuore del brano, che è finalmente indipendente da essi, perché è venuto a coincidere con l’idea stessa di sé. Non a caso quest’album è uno dei preferiti del Maestro, per sua ammissione.

Un componente invece quasi assente (tranne forse in The Other Man), e probabilmente la causa della denominazione “ProjeKct” e non propriamente di un vero e proprio album King Crimson, è quello del rumore, che è precedentemente stato sempre presente. Ciò allontana anche di più l’opera dai lidi Rock e lo sposta un po’ di più verso i lavori solisti di Fripp.

E così queste caratteristiche si dipanano sui brani, dal Collins protagonista di Secrets, ai cori leggeri e spettrali che aleggiano in This House, ai pieces disordinati e coloratissimi della già citata The Other Man, alla cosa più vicina alla canzone, The Price We Pay, in cui Jakko si diletta col Gu Zheng, nella romantica e insondabile totale destrutturazione di The Light of Day, al verosimile capolavoro per completezza, sonorità, rappresentatività, coerenza e atmosfera che è la title-track.

In attesa dunque dell’auspicabile seguito di questo lavoro, non ci resta che riconoscere come la costante mutazione dei King Crimson ignori il tempo, le leggi del mercato e quant’altro, entrando a ragione nella categoria delle opere d’arte di cui quest’album è nella mia opinione degno rappresentante, e di come l’avventura più emozionante del Rock, la saga del Re Cremisi, non sia ancora giunta alla conclusione ma solo a un nuovo quanto inaspettato capitolo.

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