"Le passioni non sono naturali per il genere umano; esse sono sempre eccezioni, escrescenze. L'uomo ideale, forte, autentico è calmo nella gioia e calmo nel dolore. Le passioni devono passare velocemente, o essere respinte".

Così disse (e non contento, scrisse) Johannes Brahms. Non male per un artista romantico fino al midollo, capace come pochissimi altri di tradurre le passioni, quelle più struggenti come quelle più dolorose, in musica immortale. L'apparente schizofrenia di un'affermazione come quella citata si spiega solo con la volontà di prendere nettamente le distanze da chi sull'esasperazione e sulla spettacolarizzazione delle passioni un po' "ci marciava", come si suol dire. Questi rivali di Brahms, a cui piaceva identificarsi nella "Musica dell'Avvenire", non erano certo dei ciarlatani, ma fior di musicisti come Berlioz, Liszt e Wagner, gente che avrebbe contribuito (insieme a Brahms) a scrivere la storia della musica dell'800. Solo che il loro atteggiamento nei confronti della musica del passato e dei suoi codici (forma-sonata, contrappunto ecc. ) era del tutto disinibito e rivoluzionario, mentre il "romantico conservatore" Brahms preferiva concentrare nelle invenzioni melodiche tutte quelle passioni che a parole respingeva, senza forzare troppo le strutture e le regole ereditate dal secolo precedente, della cui musica era un cultore (per esempio Bach, all'epoca quasi dimenticato, era tra i suoi autori preferiti). Questa polemica tra "rigoristi" e "avanguardisti" sarebbe poi svanita nel nulla all'inizio del '900, con l'autorevole parere di compositori come Mahler e Richard Strauss, che riconobbero ad entrambe le "scuole di pensiero" immensi meriti. Ma intanto contribuì a complicare non poco la vita artistica di Brahms, aggiungendosi ad un'innata mancanza di fiducia nei propri mezzi, tipica specialmente del periodo giovanile.

Il suo progressivo superamento coincise con una specie di metamorfosi fisica, avvenuta intorno ai 40 anni, da cui uscì fuori il Brahms maturo, appesantito e quasi camuffato da un'enorme barba, che caratterizza la maggior parte dei ritratti dell'artista. Proprio protetto da questa specie di corazza, evidentemente non solo esteriore, Brahms finalmente affrontò e superò vari tabù, a cominciare da quello che più lo aveva osessionato: la sinfonia. Quando nel 1881 nacque il monumentale Concerto per pianoforte n° 2 in si bemolle maggiore Op. 83, le sinfonie all'attivo erano già due, e di notevole valore, anche se i capolavori assoluti sarebbero state le due successive. La padronanza delle forme musicali più complesse era ormai assoluta e le passioni, per quanto ufficialmente negate, alimentavano una fantasia al massimo dello splendore, ed ecco il risultato: un Concerto così straripante di idee musicali da richiedere quattro movimenti invece dei canonici tre, una vera e propria maratona sia per il pianista che per l'orchestra, ma non certo per l'ascoltatore, che si beve beato cinquanta minuti di grandissima musica. Per ritrovare proporzioni del genere bisognerà arrivare a Rachmaninoff, guarda caso un altro "conservatore", che in pieno '900 proponeva musica tipicamente tardoromantica. Figlio dei maestosi concerti beethoveniani (e non mi riferisco solo all'arcinoto "Imperatore" ma anche agli ingiustamente meno noti Terzo e Quarto) come del fantasioso e agitato capolavoro in la minore di Schumann, il Secondo Concerto di Brahms è un fantastico esempio di esplosione di sentimenti tenuta (fino ad un certo punto) sotto controllo, quel tanto che basta per non sfociare nella pura "Fantasia per pianoforte e orchestra" mantenendo, sia pure enormemente dilatate, le strutture classiche.

La voce tenue e "lontana" di un corno apre il primo movimento ("Allegro non troppo") con una calma idilliaca, ma fin dall'entrata inquieta del pianoforte si capisce che il fuoco delle passioni sta lavorando sotto la cenere della severità, e ben presto divamperà sotto forma di impetuose fiammate che stravolgono il tema iniziale del corno, ormai intensamente drammatizzato e affidato a tutta l'orchestra, per non parlare degli altri temi e dei loro preziosi e complicati intrecci. Una chiusura piuttosto repentina ci coglie ancora nell'atto di assagiare qua e là un po' della carne che è stata messa al fuoco, che è veramente parecchia, ma soprattutto senza la minima sensazione di pesantezza nonostante i quasi 20 minuti di musica. A questo punto ci si aspetterebbe una pausa di riflessione, e invece, inatteso come uno "Scherzo" beethoveniano, ecco il sublime "Allegro appassionato" che elettrizza ulteriormente l'atmosfera, con quell'attacco del pianoforte improvviso come una saetta, a cui risponde con cupo e furioso impeto il tuono dell'orchestra. Dopo un "input" del genere è naturale aspettarsi scenari successivi se è possibile ancora più agitati e drammatici rispetto al primo movimento, e in effetti ciò che viene dopo non delude affatto le nostre attese. Come non le delude la tanto desiderata oasi di pace, che si concretizza in un "Andante" di rara delicatezza. Grande protagonista di questo movimento è il violoncello, prima quasi in solitudine, poi con una specie di tenero duetto con il pianoforte, che si infittisce sempre più, per poi tornare gradualmente alla rarefatta e cameristica quiete dell'inizio. Un incanto.

Infine, con l'"Allegretto grazioso" Brahms sembra volerci congedare con insolita gaiezza, con un rapido susseguirsi di festosi temi di carattere tzigano, che sembrano provenire dallo stesso mondo delle sue "Danze ungheresi". In effetti questi finali allegri non sono poi così rari nelle sue opere: basta pensare al Concerto per violino o al Primo Concerto per pianoforte (bellissimo anche questo, anche se un po' più frammentario e disorganico: merita una recensione a parte). Forse sono posti ad arte, come contrappeso al carattere prevalentemente malinconico, anche se sublime, di opere come questa. Vedo che sta venendo fuori un trattato, quindi concludo con la versione del Secondo Concerto di Brahms a cui sono più affezionato, il che non vuole dire che sia la migliore: Claudio Arrau con la Philharmonia Orchestra diretta da Carlo Maria Giulini. Solista e orchestra ci danno dentro non lesinando certo né l'impeto né i colori, e dandone un'interpretazione veramente passionale. Sì, ho detto proprio "passionale", e Brahms non me ne voglia.

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