Musica perfetta: immaginate un connubio tra le allucinazioni deformanti di Lynch e la visionaria, drammatica poetica di Wenders, codificatene la potenza immaginifica e proiettate ciò a ridosso della tematica del viaggio. Viaggio in cui si alternano soggetti come polveri trasportate sulle rocce dei tempi: ambient cinematografico (con in testa ben piantate sonorità morriconiane), elettronica minimale, post-rock isolazionista.

Questo è "Mi Media Naranja" (espressione spagnola, letteralmente "L'altra metà dell'arancia", il cui significato rappresenta la condizione intima, l'altro noi stessi): melodie ibernate, scie e cicatrici di suono, parole sussurate, assolvenze e dissolvenze, prolungati accordi in loop, impalpabili ritmi da cui ogni tanto affiorano archi oppure il tocco languido di un pianoforte. Quasi un concept, l'opera dei Labradford descrive una passeggiata notturna attraverso strade e scorci desertici quieti e malinconici.

Un lavoro strategicamente oscuro da qualunque angolazione lo si guardi. Come sempre la lentezza è lì bella presente e molte volte si trasforma in immobilismo (oserei dire quasi estatico) che è da sempre il marchio di fabbrica della Kranky, etichetta storica in ambito indie negli U.S.A., di cui i "nostri" sono da sempre i principali portabandiera (basti pensare che il loro primo album "Prazision" ha il numero di catalogo 001!).

In modo del tutto naturale non c'è più spazio per le parole, per i testi e l'isolazionismo (a quanto ho saputo ora anche mediatico) del trio della Virginia si manifesta nei titoli dei sette lunghi brani inclusi ridotti a semplici lettere. Tutto questo arricchisce di ulteriore inebriante fascino un album che si nutre di pulsazioni letargiche e soffici carezze sonore tali da trasportare chi è all'ascolto in una sorta di stato di semi-incoscienza. Potere della staticità del suono (perchè di "suono" si tratta non certo di canzoni): nulla sembra muoversi, nemmeno l'aria, lungo le prime tre tracce.

Più avanti temi narcolettici e westernati rimangono prigionieri di eteree ma profondissime linee di basso, sempre tenendo presente che le derive ambient sono sempre lì in dolce agguato. Musica perfetta dicevo all'inizio. Perfetta no, non c'è mai niente di perfetto ma organica sì. Organica anche se mai improvvisata. Composta precedentemente per piccoli ed estenuanti passi (per stessa ammissione loro) viene poi registrata in studio in un unica presa diretta. Ciò rende le sonorità labradfordiane quasi come un quadro: qualsiasi ritocco può risultare pacchiano e fuori luogo.

Insomma, il disco che molti reputano il più post-rock dei Labradford, sempre che questo termine possa significare ancora qualcosa, in realtà semplice e meravigliosa musica dell'anima. Comunque sia una conferma dello stato di grazia (allora ed oggi) di una formazione in grado di dipingere luoghi musicali scarni ma ben definiti nonostante l'incedere dolente e quasi minimale degli strumenti. È questa la loro vera forza.

Difficile pensare una colonna sonora migliore per un acido nel grand canyon...

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