Slide è un disco in cui la sofferenza diventa cantabile, ti si attacca addosso, ti entra sotto la pelle, diventa parte di te, non puoi più farne a meno. È uno di quei dischi che ha il coraggio di sondare gli aspetti più reconditi e nascosti dell’animo umano, la paura e la rassegnazione, e di descriverli con una tenerezza e una sincerità che lambisce l’autolesionismo, con gli occhi colmi di lacrime.
Gran parte delle melodie del disco sono straordinariamente semplici e orecchiabili come le filastrocche per bambini (If I Think of Love, Electrified), ma arrangiamenti eccentrici e a volte turbati da rumorini e lievi dissonanze (grande la produzione di Tchad Blake) le rendono pure visioni. Altrove è soltanto il pianoforte ad accompagnare le sue sofferte autoanalisi (Wood Floors, Guillotine Love), e quelli sono forse i momenti più toccanti del disco. La sua dote più sorprendente è forse la capacità di trasformare canzoni inizialmente timidissime in struggenti canti di dolore, che stringono il cuore. Ascoltare per credere brani come l’iniziale Way Below the Radio, in cui un radioso ritornello affiora da una strofa eterea e sfilacciata, o la sconsolata No Colour Here, che inizia come una regolare ballata folk alla Joni Mitchell per dare spazio, proprio quando l’armonia sembra essersi fatta silenziosa, ad un commovente duetto tra fisarmonica e violino.
Capolavoro nel capolavoro è la conclusiva Reptile, un girotondo di suoni e timbri che è esemplificativo di come Lisa riesca ad essere al contempo solenne, drammatica ed orecchiabile (con quel ritornello in punta di piedi, infantile e dolcissimo come una ninna nanna). Nel mezzo brani come Tomorrowing e Crash, confermano da un lato la sua inesauribile creatività compositiva, nonché la profondità delle sue riflessioni e il baratro emotivo in cui sembra essere precipitata (“Feeling good to not feel bad is way too weird for me…” e ancora “I wonder why it’s so easy to be the way I hate, and so hard to turn around and say yeah” da Crash).

Il suo sussurro tenue ed estatico è apparentemente poco significativo se paragonato ad altre grandi voci del rock, ma è davvero difficile immaginare melodie delicate e soffuse come Slide o Wood Floors cantate in un registro diverso dal suo bisbiglio neutro ed angelico. Una sensazione di fragilità e dolcezza accompagna l’ascolto del disco, e non è difficile percepire Lisa come un’amica che ti sta confidando il suo dolore. Ma si tratta di qualcosa che va molto oltre la semplice musica confessionale, perché spesso i drammi personali dell’autrice sono talmente trasfigurati da assumere significati universali. Ed è impossibile pensare a Lisa Germano come ad un’artista semplicemente tormentata e chiusa nel suo dolore, perché in fin dei conti il suo modo di esprimersi è talmente semplice ed accessibile da rendere totalmente partecipe e coinvolto chi l’ascolta, anche se non si conosce (o non si comprende) la fonte di tanta sofferenza.

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