Shannon la pasionaria. Shannon la visionaria. Paragonata da alcuni a Lisa Germano, a mio parere ha in comune con la cantautrice dell’Indiana, oltre che l’attitudine a suonare quasi tutti gli strumenti nei suoi dischi, unicamente la matrice folk delle composizioni.  L’umore che permea le opere (in particolare questa da me recensita) di Shannon è indubbiamente più cupo e funereo (a volte in maniera anche un po’ forzata), e mentre Lisa esprime in maniera schietta e immediata la sua sofferenza, Shannon usa un codice tutto suo che il più delle volte è quasi impenetrabile. La sua voce tutt’altro che fragile si innalza spesso in urla lancinanti di puro dolore.

Questo viaggio nell’inferno domestico dell’autrice inizia con l’inquieta Less Than A Moment, quasi un incubo ad occhi aperti, in cui Shannon ha il vigore delle riot girls (mi viene in mente PJ Harvey), con la differenza che la sua è una rabbia tutta di testa, aspetto ulteriormente suggerito da melodie spesso classicheggianti (A Vessel For A Minor Malady) nonché da testi criptici e brevi, quasi degli aforismi, a tratti inintelligibili. I momenti più cupi e concisi (come la magnifica e terribile Hinterland, su figure isteriche del pianoforte) sono anche i più riusciti; The Sable e lo strumentale Colossal Hours si crogiolano impietosamente nei rintocchi del pianoforte e in sinistre incursioni di rumori di ogni tipo, fino a sprofondare nel buio della disperazione più totale.
La qualità psicologica delle sue canzoni è evidente in brani come Surly Demise e The Hem Around Us, per nulla vitali, sospese in un limbo di estasi riflessiva. Ancora più cupa è forse You Hurry Wonder, e il “la la la” che accompagna le note finali è semplicemente angosciante.
La più lunga Dyed In The Wool, altrettanto tormentata (“there goes your body in a box/ that is all I have left/ now this odor lines my shaking bed”) sembra riflettere un paesaggio di una desolazione quasi disumana. Il capolavoro è forse Methods Of Sleeping, sussurrata come una preghiera su un tenue tappeto di organi e tastiere, finchè a fare da contrappunto al suo canto dolcissimo (“what was is failing in your eyes”) è soltanto un delicato arpeggio dell’harmonium. Il finale magico di Bells, tenue e soave come le ninna nanne più serene di Lisa Germano, sembra suggerire che forse, dopo tutto, c’è un po’ di speranza, una via d’uscita.

Se il disco ha un difetto (ma per molti può essere un pregio) è forse l’eccessiva concisione (appena 34 minuti). Il fatto che molte delle canzoni non si sviluppino nei soliti 3-4 minuti le fa apparire, da un lato, come pugni nello stomaco di cui non si percepisce la provenienza, ma dall’altro le sublima fino a renderle delle rivelazioni improvvise, al termine delle quali si finisce per rimpiangerne la brutale bellezza.

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