C'è sempre stato un legame molto forte tra me e questo concerto beethoviano, un concerto in grado di scalfire l'anima più dell'Imperatore o delle opere più blasonate del compositore tedesco. Sarà per quella sua aura così "romantica" (nel senso più letterario del termine), sarà per quel pathos che ogni nota riesce ad emanare (il terzo è l'unico concerto di Beethoven a far uso della tonalità minore) o per il paragone quasi inconscio che mi balza alla mente ad ogni ascolto tra questo concerto e il concerto K.466, il "pre-romantico" di Mozart, con il quale ha molti punti in comune.

L'opera si apre con i 14 e passa minuti dell'"Allegro con brio", una delle pagine più complesse ideate dal musicista di Bonn, dove un solenne primo tema in modo minore si scontra con un secondo tema più cantabile, senza mai far trasparire tracce di discontinuità, senza mai lasciare il posto a dissonanze fuori luogo. L'esposizione dei temi classica della forma-sonata viene affidata alla sola orchestra (caratteristica piuttosto insolita per un concerto dell'epoca), che poi con un crescendo lascia il posto ad un pianoforte aggressivo e deciso, d'ora in poi autentico protagonista del concerto. Il solista fa man bassa dei temi precedentemente proposti dall'orchestra, li amplia, li sviluppa in un turbinio di note in cui il resto dell'orchestra può solo stare a guardare, in un continuo crescendo fino ad una vorticosa cadenza, un momento di virtuosismo assoluto da lasciare a bocca aperta. I toni si placano poi, il pianoforte si ritrova da solo a dialogare con i timpani (classico dei concerti beethoviani, una tecnica che tornerà anche nell'Imperatore). Ma è solo un attimo, prima dello spiazzante finale in cui l'orchestra torna a essere protagonista riproponendo il primo tema in una salsa ancora più aggressiva.

Un atmosfera totalmente diversa si respira nel "Largo", una delle migliori pagine in assoluto del compositore tedesco. Il pianoforte entra in un modo delicato da far invidia anche al miglior Chopin, proponendo una melodia semplicissima che sembra galleggiare eterea tra gli 88 tasti prima di venir presa per mano e sollevata dall'orchestra, in un continuo dialogo tra gli archi e i fiati. Il pianoforte rientra, stavolta accennando un nuovo tema, una melodia leggera dal lieve tempo di valzer, e l'orchestra torna di nuovo a sostenerlo, ad accompagnarlo, senza mai prendere il sopravvento, senza mai sottrarre il ruolo di protagonista allo strumento solista. Il tempo di lasciare che questo nuovo refrain penetri nell'anima ed ecco che la tastiera disegna un arabesco di note sul quale sembrano galleggiare le soffici melodie dei fiati, e il tema iniziale ritorna in tutta la sua dolcezza. Il pianoforte lo accenna, ci gioca, sempre sostenuto da un'orchestra mai troppo pretenziosa, fino a giungere ad una cadenza dai toni totalmente diversi dalla precedente, una cadenza delicata che sugella così uno dei momenti più alti della storia della musica.

Il finale è lasciato a un "Rondò" dalla forma tipicamente classica, quasi un omaggio di Beethoven a Mozart e all'intera musica pre-romantica. La complessità di questo movimento lascia quasi esterrefatti, il modo in cui ogni tema emerge dalla partitura per poi calare e lasciare nuovamente spazio al motivo principale stupisce ancora a 200 anni dalla stesura di questa pagina. E ciò che lascia ancor di più senza parole è la continua alternanza tra temi in modo minore e in modo maggiore, un'alternanza che non appare mai forzata o fuori luogo, ma sembra quasi il modo più "naturale" di generare il rondò. Ed è proprio un inatteso modo maggiore a far capolino nel finale del movimento, chiudendo in modo aperto e luminoso una delle pagine più alte del genio di Bonn.

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