Uno dei più sottovalutati album del rock è la definizione giusta per 'Caress of steel'.

Uscito nel 1975, segna il confine fra il periodo hardrock e il periodo progressive dei Rush. Se infatti pervadono ancora elementi come canzoni corte dai duri riff di chitarra con voce al limite dell’urlo, possiamo anche notare come comincino a comparire le prime suite, il cui ascolto risulta meno immediato a chi non ci abbia fatto l’orecchio. Forse è per questo che la critica lo ignora totalmente e il pubblico tende a snobbarlo, allora come oggi. Tuttora 'Caress of Steel' è l’album meno venduto dei Rush. Ma perché? E’ forse per la copertina poco bella? Fatto sta che tanto bene riesce a conciliare due generi musicali tanto diversi, che viene naturale un sospiro di dispiacere per la triste sorte di questo Lp.

I musicisti sono in sintonia totale, con l’eccellente Neil Pert alla batteria che scrive anche tutti i testi delle canzoni e si dimostra essere anche un bravo paroliere, Alex Lifeson alla chitarra più in forma che mai e poi il Colosso con la C maiuscola, Mr. Geddy Lee, che con la sua granitica voce mette tutti a tacere. Vogliamo poi parlare del suo maestoso modo di suonare il basso dalla tecnica straordinaria? Trascinante è infatti un pezzo come Bastille Day, un sano pezzo di hardrock con innumerevoli sovraincisioni, frutto di un notevole lavoro in studio, ed un fantastico assolo di Alex Lifeson. I Think I’ m Boing Bald rappresenta il lato comico che la band ha sempre amato, infatti narra le (dis)avventure di un uomo che diventa pelato. Il riffettino è semplice ma efficace. Lakeside Park è una delle belle ballate tipicamente Rush, in cui ci si stupisce di come Geddy Lee riesca a cantare e suonare le linee di basso allo stesso tempo. Nel finale troviamo la bellissima chitarra arpeggiata con quell’effetto che Alex Lifeson adora così tanto (e che risentiamo anche in '2112'). Il primo lato lo chiude la prima suite della storia dei Rush: The Necromancer, racconto di un negromante che riesce a incantare le terre con il suo potere nero, come si sente nel cupo primo pezzo Into The Darkness. Stacchi di batteria eccezionali nel pezzettino Under the Shadow e Geddy spezza le casse dello stereo con la voce, poi il basso comincia a viaggiare, sfociando nel conclusivo Return of the Prince, dopo il velocissimo assolo di chitarra. Un po’ come nel Ritorno del Re nel Signore degli Anelli, il ritorno del principe segna la fine della magia nera e la restaurazione della pace e della prosperità nelle terre incantate e la melodia si fa più allegra: di nuovo arpeggio, un simposio in musica.

Lato B: The Fountain Lamneth divisa in: - In The Valley, fantastico intro acustico e riff principale della suite dai primi toni prog. - Didacts and Narpets, veloce virtuosismo di Neil Peart. - No One at the Bridge, grandissimo e suggestivo lento dalla linea melodica piuttosto notevole. - Panacea, un altro fantastico intermezzo acustico, da lacrime. - Bacchus Plateau, rientra la chitarra elettrica e ricomincia una nuova magia, grande come sempre Geddy Lee. - The Fountain, conclusione in grande stile, con ripresa del theme principale iniziale e fine in punta di piedi con l’ acustica. Una suite degna di tale nome, nulla in più da aggiungere.

Do 5 a 'Caress of Steel' perché è suonato alla perfezione, perché è un bell’album, perché sono un fan dei Rush e quindi poco parziale e critico, perché è un piacere ogni volta riascoltarlo, perché compatisco la sua triste sorte ma soprattutto gli do 5 perché sono stufo dei soliti cagacazzo che arricciano il naso quando gliene parlo.

Carico i commenti... con calma