Schizzato direttamente ai primi posti della mia personale classifica dei "Dischi Migliori del 2006", questo "Everything All The Time", album di debutto dei "Band Of Horses", è semplicemente un disco eccellente, in cui il verbo dell'indie rock chitarristico americano viene declinato secondo i canoni migliori, predestinandolo a girare a lungo nel vostro lettore CD.

Immerse in un'atmosfera sospesa, la bellezza che scaturisce dalla semplicità delle composizioni alle volte è davvero disarmante: epici e malinconici, Benjamin Bridwell (principale autore dei testi e lead vocalist) e Mat Brooke (entrambi ex Carissa's Wierd, visti in giro anche con gli Iron & Wine) hanno saputo costruire un'alchimia in cui il delicatissimo equilibrio delle parti è felicemente raggiunto. Alzano la voce, ma non gridano. Sussurrano, ma non mugugnano. Illanguidiscono, ma non immalinconiscono. Questo disco ha insomma il potere catartico di portarsi via come un fiume placido tutte le tensioni accumulate nel corso della giornata.

Etereo, indubbiamente, ma per nulla diafano: lascia ricchi sedimenti nelle nostre coscienze. Classico album da ascoltare nel chiuso della propria tana o in ogni caso estraniati dal mondo, soli coi propri scazzi, è anche uno dei pochi dischi usciti ultimamente che presenti più vette di un arco alpino. Eppur vero che non aggiunge niente di nuovo al discorso dell'indie meno obliquo, ma chi se ne importa! Composto da 10 frecce puntate tutte verso il nostro cuore, tutte solidissime, tutte dotate di vita propria, l'unico appunto che d'acchito gli si può muovere è forse nel cantato "slacker" di Bridwell: alle volte è davvero difficile discernere le parole dei peraltro particolari testi. Opera che non perde mai di mordente grazie al sapiente alternarsi di pezzi più sostenuti ("Wicked Gil", "Weed Party", "Our Swords", "The Great Salt Lake") con languidi down-tempo ("The First Song", "The Funeral", "Monsters"), lascia appagati e mai proni a premere il tasto skip sul lettore CD.

In generale le composizioni sono costruite su tappeti di arpeggi di chitarra (sia elettrica che acustica), di solito affogati in riverberi di accordi sgranati lentamente. Solida la base ritmica, senza mai strafare. L'amalgama degli elementi crea un suono molto coeso, con un ricco alternarsi di modulazioni alte e basse, portando tutti i pezzi in una dimensione al contempo intima, ma aperta verso spazi più ampi, tipica da anthem, con un retrogusto country-folk; abolita qualsiasi contaminazione elettronica.

Indubbiamente è un lavoro nel solco di certe sonorità un po' abusate, ma quando un gruppo riesce a tirare fuori una ballata come “St. Augustinetutto gli può venire perdonato.

Carico i commenti... con calma