Un titolo aperto per un'opera aperta, che apre un decennio (gli anni '90) e che lascia aperti interrogativi, e domande senza risposta. Sembrerebbe questo sentimento di sospensione e incompiutezza del giudizio sul mondo e sull'uomo ciò in cui si condensano i significati dell'intera opera del più "Dylan-iano" dei Cantautori Italiani (a fianco di Edoardo Bennato e dell'"altro" Francesco, De Gregori).

Un album incentrato sulle domande, domande alle quali non si può rispondere, o non si deve, come nella "Canzone delle Domande Consuete" (Premiata dal Club Tenco come Canzone dell'Anno del 1990), a dare l'impressione di una dimensione circolare della percezione della propria esistenza e del pensiero che su di essa ci si è formati ("Se ci sei, cosa sei? Cosa pensi e perchè? / Non lo so, non lo sai; siamo qui o lontani? / Esser tutto, un momento, ma dentro di te, / aver tutto, ma non il domani..."). La stessa circolarità ondosa del tempo interno, in cui tutto è fluire e rifluire, tutto è fatto di corsi e ricorsi in cui tutto alla fine ritorna al suo punto di partenza, in cui la voce narrante sembra chiedersi tra le righe se c'è un senso in questi tragitti, sullo sfondo di un'amarezza esistenziale e disillusione un pò attenuata dalla speranza, un pò dall'auto-ironia. Non un "male di vivere" decadente e imponente, (Beaudelarie, Wilde) né una "reazione e denuncia" tipica della Poetica alla base del Rock (Bob Dylan, ma anche i Rolling Stones,i Them, The Who...). La prospettiva è decisamente più spostata verso la visione "di scorcio". Questa affiorante "malinconia" (della memoria) mitigata da una visione più "rassegnata" e disincantata delle cose costituisce il fondale de "Ballando con una Sconosciuta" le cui parole, acute e ironiche/sottili, a tratti surreali chiariscono alla perfezione il concetto: "felicità che sappiamo soltanto guardare, aspettare, cercare già fatta, quasi fosse anagramma perfetto di facilità, barando su un' unica lettera...".

I Cantautori, si discute (forse in modo un pò "inerziale") hanno abbandonato in questi anni il filone socio-politico per concentrarsi sull'universo dell'esistenza individuale. Che diviene, però allegoria del mondo-tout court. Il quindicesimo disco del Cantautore modenese (considerandoli tutti senza distinzioni tra live e raccolte) si inscrive entro le coordinate di un minimalismo della memoria e dell'immaginario: "Tango Per Due", "Canzone Per Anna", "Cencio", storia di ordinario squallore umano, letterariamente "verghiana-verista" (come del resto Guccini si richiamò in precedenza al Naturalismo di Flaubert) in cui però è ancora una volta la Poesia che restituisce dignità al protagonista ("chissà se hai trovato di dentro la tua vera altezza?" fa riaffiorare quella storia del "Giudice" di De André, ma molto più tenue, autobiografica e riflessiva) ; "Le Ragazze Della Notte", sguardo su un pezzo di vita notturna, in cui come in tutti gli altri episodi, il narratore si auto-include (il punto di osservazione può essere quello del tavolino di un bar) e regala all'ascoltatore una sequenza di versi incantevoli, forse la più bella dell'album

"Come amo le ragazze della notte
così simili a me, cosi diverse,
noi passeggeri di treni paralleli,
piccoli eroi delle occasioni perse,
anche se so che non ci incontreremo
ma solamente ci guardiamo passare,
anche se so che mai noi ci ameremo
con il rimpianto di non poterci amare.
".

Nessuna denuncia, nessuna protesta, ma sicuramente una intensa partecipazione agli scenari ritratti "da dentro". Che sono delimitati da due ideali "confini": la conclusiva "æmilia" in cui lo sguardo del cantore si dilata oltre l'orizzonte del quotidiano, e ristabilisce un senso di appartenenza ("Emilia sognante fra l' oggi e il domani, di cibo, motori, di lusso e balere, Emilia di facce, di grida, di mani, sarà un grande piacere, vedere in futuro da un mondo lontano quaggiù sulla terra una macchia di verde e sentire il mio cuore che batte più piano e là dentro si perde... ") attraverso un omaggio che però definisce anche i contorni dello spazio in cui sono sfilate le varie storie sin qui raccontate, con un bell'arrangiamento rock, potente e straordinariamente interpretato a livello vocale, e "Quello Che Non...", altro gioiellino country-rock con armonica alla Bob Dylan, enigmatica nel titolo, ma chiarissima nel significato: la sottrazione del tempo di vivere a chi ha già nel mondo di oggi un tempo sottratto e compresso, ("Non siamo la polvere di un angolo tetro, né un sasso tirato in un vetro, lo schiocco del sole in un campo di grano, non siamo, non siamo, non siamo...") in cui la sparizione dall'orizzonte interiore dei referenti di base della vita ci fa perdere la consistenza della vita stessa ("Lo sai che colore han le nuvole basse e i sedili di un' ex terza classe? L' angoscia che dà una pianura infinita? Hai voglia di me e della vita, di un giorno qualunque, di una sponda brulla? Lo sai che non siamo più nulla?") anche se, per un solo attimo, l'unico, l'elevazione dello sguardo al cielo sembra scrutare la possibilità di risposte, ovviamente metaforiche ("Si fa a strisce il cielo e quell'alta pressione è un film di seconda visione, è l' urlo di sempre che dice pian piano:"). Su questa canzone dirà l'Autore "L'io narrante si rivolge a un'interlocutrice, come spesso accade nelle mie canzoni. La dissoluzione del rapporto emerge da una serie di immagini secche che, in apparenza, non hanno molto a che fare con il rapporto di coppia e che si sovrappongono l'una all'altra. Era un momento mio di grandi incertezze. Nonostante si trattasse di una questione privata, sotto c'era anche, per vie oblique, tutto il malessere delle sinistre, in evidente crisi d'identità. Credo che entrambi i disamori si siano influenzati a vicenda"

Un disco che dice molto, forse tutto, ma da uno scorcio, una feritoia nel muro che nella nostra inconsapevolezza ci circonda. La citazione "cri(p)tica" sulla quarta di copertina di "Paura e Desiderio" è a questo punto perfetta:

"non è il tempo ad avere bisogno di noi, siamo noi che abbiamo bisogno del tempo".

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