Riprendendo in retrospettiva il primo album di Battisti ci si trova davanti ad un bivio. Come considerare quelle 12 composizioni? Sono solamente frutti acerbi, i prodromi di una grandissima carriera che non sarebbe tardata ad arrivare, oppure qualcosa di più? Questa considerazione nasce da un innocuo - quanto forse ingiusto - paragone con i lavori successivi. Anche volendo arrivare solamente fino ad "Anima Latina" (il capolavoro assoluto), è impossibile non esporsi al confronto tra questo "Lucio Battisti", datato 1969, e gli altri album.

E allora? Il nodo non è facilmente risolvibile. D'accordo, ci sono composizioni epocali, come "Un'avventura", "Non è Francesca", "Per una lira". Senza dimenticare una gemma come "29 settembre", che il sottoscritto considera tranquillamente come uno dei primi tre capolavori battistiani, fulgido esempio di emozioni e sentimenti accompagnati da una melodia celestiale. Ma in generale sembra di sentire un Battisti ancora acerbo, incerto sulla via da seguire, muoversi tra il folk di "Uno in più", i ritmi latini di "La mia canzone per Maria", una versione di "Il vento" nettamente inferiore a quella dei Dik Dik. Proseguendo sul sentiero del dubbio, si può con tutta tranquillità affermare che ogni canzone possiede vita propria, e ciascuna è slegata dalla sua antecedente (o successiva). Questo perché l'album è stato concepito come una raccolta di singoli, come si usava allora, dopo che la "coppia dalle uova d'oro" aveva sfornato successi a ripetizione per una moltitudine di cantanti e gruppi di mezza Italia. Ciò potrebbe quindi essere considerato un difetto, ma è altrettanto vero che in ciascuno di quei tre minuti sono racchiuse, di volta in volta, intuizioni semplicemente geniali. I fiati Motown di "Un'avventura". Le atmosfere eteree di "29 settembre". L'infinita coda strumentale di "Non è Francesca", con le improvvisazioni di Gianni Dall'Aglio alla batteria e gli effetti di chitarra registrata "all'indietro" (non ricorda a nessuno Harrison in I'm only sleeping? Ascoltare e confrontare). L'intro di classico battistiano chitarra - voce di "Prigioniero del mondo", che sfocia poi in una sentita declamazione di stati d'animo. I cori di "Nel cuore, nell'anima". Ho citato solo alcuni esempi, i più evidenti, a testimonianza delle molteplici sfaccettature che ogni composizione porta con sé.

Aiutato da una schiera di musicisti eccelsi - i Ribelli, ovvero il nucleo della futura P.F.M., più Dario Baldan Bembo all'organo ed una sezione orchestrale diretta dal maestro Gian Piero Reverberi - Battisti raggiunge un risultato notevole, forse il più importante per lui all'epoca, ovvero la popolarità, con un album che negli anni risulterà essere il terzo in graduatoria assoluta di vendite in Italia.

Insomma, tirando le conclusioni... è impossibile tirare conclusioni. A mio parere il disco non merita il giudizio massimo, per la semplice operazione di paragone effettuata nelle prime righe. Resta comunque un grandissimo esempio delle qualità dell'artista di Poggio Bustone, qualità che avrebbe ampiamente dimostrato negli anni a seguire.

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