“The Devastations are: the sound of a meteor cooling in the cut grass; the clash of a terrible beauty with the customary; Tom Carlyon, Hugo Cran, Conrad Standish.”
(Rowland S. Howard)

Sembra che quest’inverno non debba proprio finire. Le giornate uggiose, le nuvole, il cielo grigio, la pioggia, il freddo non vogliono veramente andar via. I fine settimana è meglio trascorrerli a casa con le tapparelle abbassate. Che fare allora? Prendiamo un libro che avremmo voluto leggere da tempo e consoliamoci ascoltando una musica calda, intima e profonda. Una musica adatta per cavalcare la notte. Che c’è di meglio, allora, di questo omonimo album d’esordio degli australiani “The Devastations” (Munster Recors – 2004)? In questo momento pare veramente nulla.

Sono ormai diversi giorni che lo ascolto quasi ininterrottamente. Era molto tempo che un disco non mi colpiva in questo modo, perché delicato e struggente e scava nel profondo dell’animo. La loro musica è avvolgente e ti entra dentro lentamente come un pensiero a volte consolatorio, più frequentemente lancinante. Ed è davvero straordinario scoprire che c’è ancora qualcuno capace di creare atmosfere vibranti, scaldando il cuore in questo modo senza condurti neanche un attimo verso la noia. Allo stesso tempo, è bello riscoprire che non sono necessari moltissimi ingredienti per condurci a questo risultato. Una chitarra acustica, un violino, una chitarra elettrica talvolta ruvida, una voce greve, calda carismatica e affascinante, ogni tanto le note di un pianoforte o un organo, una ritmica densa, ma non invadente sono di per sé elementi sufficienti. Se poi si avvertono tra le note le anime di gente come Nick Cave, Leonard Cohen o affinità con gruppi come “The Black Heart Procession”, allora cosa possiamo chiedere di più? Ascoltando, infatti, questi sorprendenti australiani non è possibile non intravedere queste coordinate nella loro ispirazione. Si ascoltino, ad esempio, “Loene” o la splendida “Previous Crimes” che sembrano brani del miglior Nick Cave.

Ma non mancano altri elementi capaci di suscitare curiosità come i duetti vocali con la violinista Emilie Martin, che fanno intravedere il fantasma di Gainsbourg, o l'inizio del disco capace di proiettare l'ascoltatore nell'universo musicale di Morricone, o una meravigliosa, quanto breve, versione strumentale con banjo e organo di “Ausencia”, che divide a metà il disco. Forse qualcuno se la ricorderà interpretata da Cesaria Evora nel film “Underground” di Kusturica, ma in questo caso non sfigurerebbe in "Frank’s Wild Years" di Tom Waits.

Con queste caratteristiche non sorprende che il gruppo sia riuscito in brevissimo tempo dalla sua nascita, avvenuta nel 2002, a raccogliere i favori della critica e del pubblico e la stima di musicisti come Rowland S. Howard (chitarrista dei "Birthday Party" di Nick Cave) e Alexander Hacke (Einstürzende Neubauten), riuscendo nel mentre anche a fare da spalla ai tour australiani di Cat Power e "Tindersticks".

In definitiva, senza tanti giri di parole: un buon gruppo, riferimenti intriganti, un bel disco, una sorpresa.
Ascoltatelo.

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