Da intransigente ascoltatore qual'ero nei miei verd'anni, due erano le categorie di cui proprio non mi fidavo. La prima erano i "supergruppi". La seconda, i poeti prestati al rock.

Seguendo i precetti del perfetto rude boy, me ne stavo alla larga da coloro che identificavo quali autentici untori della peste rock e, mischiando a volte il grano col loglio, tanto mi allontanavo dal per me allora incomprensibile sogno westcoastiano di Crosby, Stills, Nash & Young, quanto dal tronfio sinfonismo di Emerson, Lake & Palmer o dall'affettato FM-sound dei biechissimi Asia. Allo stesso modo, non ero stato ancora illuminato da Jim Morrison, sul quale all'epoca nutrivo più o meno la stessa considerazione che aveva per lui il mefistofelico Zio Frankie ("Un adolescente viziato"...). Ed anche la poetessa-rock per eccellenza, Santa Patti Smith, mi aveva tradito con quell'infausto 1979 che pareva buttare nella spazzatura tre anni di gloriosa blank generation. Come poteva quella stessa artista che aveva iniziato la carriera con parole quali "Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei...", uscirsene con un album che inneggiava all'amore coniugale ed immacolato fin dalla copertina come "Wave", nonché terminare la tourneè italiana omaggiando Papa Luciani?

Ci pensò uno scarsocrinito losangelino a farmi ricredere. Si chiamava Chris Dejardins, per tutti più agevolmente e radicalmente Chris D. , come si conveniva all'epoca punk. Più che un musicista, un agitatore sociale. Un intellettuale dalla forma mentis aperta in grado di catalizzare intorno a sé la nascente "scena" della città degli Angeli, utilizzando a turno la parola scritta per fanzine, giornali, racconti e poesie, la macchina da presa come film-maker e naturalmente anche la musica, estremo mezzo su cui far viaggiare le sue visioni. Insomma, la risposta della costa Ovest a quel Jim Carroll che aveva iniziato ad incrinare le mie stupide certezze in fatto di intellighenzia applicata al rock'n'roll. E proprio per sbattermi in faccia tutta la mia insipienza, Chris, poeta-cantante col "chiodo", mi spiegò che con la giusta attitudine anche un supergruppo poteva avere il suo perché. Li aveva chiamati The Flesh Eaters, omaggio a uno scadente horror B-movie di quelli che tanto piacevano anche a Lux Interior e Poison Ivy. Sul finire degli anni '70, tanta era la reputazione del nostro factotum nel "giro" che al suo progetto "aperto" aderiranno in prima battuta futuri famosi come Stan Ridgeway. Ma di poeti in un gruppo rock ne basta uno, pertanto dopo l'esordio più convenzionalmente one-two-three-four di No questions asked, Ridgeway andrà a donare un talento letterario in bilico tra Carver ed Arthur Miller all'epos techno-morriconiano dei Wall of Voodoo. Poco male, pensò il poeta rimasto, se si ha la fortuna di dare le parti di chitarra a Dave Alvin, quelle di basso a John Doe, batteria e percussioni a Bill Bateman e DJ Bonebrake, infine il sax Steve Berlin. Scala reale. Supergruppo servito.

Al secondo tentativo sulla lunga distanza, nel 1981 Chris e i suoi felicemente cooptati scodellarono il loro capolavoro. "Un minuto per pregare, un secondo per morire" sembrerebbe titolo punk per eccellenza, eppure...Eppure, dal suo predecessore di un anno appena questo si allontana con i passi compiuti da chi indossa gli stivali delle sette leghe. Qui il punk è come Dejardins per i suoi. E' il catalizzatore, quello che fa reagire i vari elementi. Immaginiamo una voce alla Darby Crash cui però non basta intonare il requiem urbano per il declino della civiltà occidentale, ma che si lancia in una cavalcata nelle malsane paludi Seminole della Florida, fianco a fianco con il Bad Indian Jeffrey Lee Pierce e con l'Iguana di Fun House. La destinazione finale di questi forsennati punk-rock-blues non è certo l'aperta prateria, ma l'oscurità, come ci aveva preannunciato la temibile copertina.  Scordiamoci subito però qualsiasi affinità tanto con i losangeleni per caso Christian Death, quanto con le pacchianerie dark dei contemporanei che stanno di là dall'Atlantico. Casomai è il patto stretto a un crocevia qualsiasi del Sud con un Papa Legba con tanto di cresta e spilloni. Il gotico lirismo di Chris ci induce a ballare un surreale stomp con il diavolo ("Satan Stomp"), a scavarci la fossa ("Digging My Grave") non prima di aver pregato finchè non saremo madidi di sudore ("Pray Till You Sweat") e colpiti da una febbre malarica ("River Of Fever"), ma poco ci importa. Se si deve morire, meglio farlo a briglia sciolta, accompagnati dai ritmi indiavolati e dall'intreccio robusto tra le chitarre di Alvin e il sax di Berlin, che qui pare più un discepolo spiritato di James Chance che non l'aggraziato futuro accompagnatore di rhythm'n'blues mariachi dei Los Lobos ("See You In The Boneyard"). Fintanto che non sarà tornato un eroe d'altri tempi come Cyrano de Berger's Back a coniugare il punk di Weirdos e Crimes con i Creedence e il rock epico, il viaggio ci parrà davvero oltremondano. Ma alla fine, per noi che oramai saremo definitivamente entrati in questo rito voodoo con Mefisto e Baron Samedi, perderemo pure l'ultima speranza, galoppando con i Cavalieri dell'Apocalisse ("Divine Horseman") verso l'ultima, ignota frontiera del rock americano.

Sì, dopo questo, potevo fidarmi anche di Jim Morrison.

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