Ricordate come avevamo lasciato gli svedesi Katatonia tre anni fa? Con un ricordo ben preciso: gli enormi chitarroni, le ritmiche a tratti serrate, le influenze sempre più “tooliane”, la voce di Jonas più in forma che mai. Cosa aspettarci allora dal seguito di “The Great Cold Distance”?

L’introduzione in grande stile è affidata alla già anticipata “Forsaker”, che ci illude, facendoci credere per un attimo che questo nuovo lavoro porti avanti il cammino intrapreso col precedente... Ma se pensate di ritrovare gli stessi Katatonia degli ultimi album potreste rimanere delusi ai primi ascolti! Ah secondo brano è riservato invece l’ingrato (ma riuscitissimo) compito di avvicinarci, molto subliminalmente, a ciò che ci aspetta, mescolando le due anime del disco, quella del riffing pesante e quella molto più sommessa e “doom” (nell’accezione “Katatoniese” del termine): questo equilibrio rende “The Longest Year” uno dei pezzi migliori di tutto il lavoro (e il ritornello è uno dei più emozionanti mai concepiti dalla band!). Da qui in poi l’album si dipana dolcemente, trascinandoci dentro atmosfere eteree come non mai, ottenute anche grazie ad un abbondante ma sapiente utilizzo di tastiere, talvolta forse troppo in risalto rispetto alle chitarre, di un basso dal suono “trasformista”. Sacrificando la pesantezza a favore di una nuova intenzione, adesso più che mai debitrice a band come Opeth e Porcupine Tree (perfetto esempio ne è “Idle Blood”) e ancora una volta Tool. E condannando forse l’album al suo unico ma importante difetto, un’eccessiva ripetitività che qualche pezzo più dinamico e veloce qua e là avrebbe aiutato ad evitare. Ma l’inquietudine di “The Promise Of Deceit”, la cadenza angosciante di “Nephilim” finiranno per entrarvi (“scavando”, azzarderei dire) nel cuore, facendovi alla lunga dimenticare dei difetti e smettere definitivamente di rimpiangere “The Great Cold Distance”. Il song-writing di tutte le tracce è infatti profondamente maturo, l’attenzione per i dettagli maniacale, la continua ricerca e sperimentazione sui suoni sempre azzeccata, la voce di Jonas più calda e versatile che mai.

Arrivate infine alla meravigliosa conclusione del disco per innamorarvene definitivamente: “Day And Then The Shade” appesantisce e dinamizza per un attimo gli equilibri, per poi lasciare spazio alla poetica “Departer”, che anche grazie alle vibranti guest vocals di Krister Linder dolcemente ci sussurra un “arrivederci”...

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