Di iniziare una seconda volta una mezza stroncatura (ma neanche tanto mezza) con vagheggi nostalgici sul glorioso passato di un grande gruppo proprio non mi va, mi sembrerebbe quasi ipocrita. Dopotutto si sta parlando dei Katatonia e di certo non ho bisogno di ricordare ai fans, o comunque a chi ha seguito la band fino ad oggi, le grandi cose che i nostri svedesi hanno regalato al pubblico metal (e non) nei loro diciotto anni di carriera, praticamente esenti da ricadute.
Questo almeno fino ad oggi...

... Novembre 2009: i Katatonia ritornano, ritornano con "Night is the New Day", il successore del’immenso (a modesto parere del sottoscritto) "The Great Cold Distance"; ritornano sulla cresta dell’onda in compagnia di altri gruppi ben noti che hanno costellato l’anno di uscite buone o meno; Mister Akerfeldt, connazionale e grande amico dei Katatonia, ci stuzzica i timpani con qualche anticipo, definendo l’album in questione <<... The greatest "heavy" record I've heard in the last 10 years... Truly a masterpiece>> e tante altre belle cosine che effettivamente, più che incuriosire, perplimono; se in più contiamo che lo squisito singolo-antipasto "Forsaker" non ha fatto altro che tenere sul chi va là ogni buon fan che si rispetti, è facile intuire che "Night is the New Day" avesse tutte le carte in regola e il tappeto rosso già steso per essere accolto in cima alla classifica degli album dell'anno (almeno per ciò che concerne il panorama metal).

Bene.
Anzi, no, non va bene per niente, perché quest’album è, detto senza troppe remore, pallosissimo, un lavoro che offre in buona parte una sfilza di brani che non sono né carne né pesce e che non hanno né capo né coda. Un momento, un momento... Sto veramente parlando dei Katatonia? Sembra proprio di sì. Eppure chi mai sospetterebbe qualcosa ascoltando il singolone di apertura di cui sopra, "Forsaker", con quel ritornello maestoso e dilatato, con quell’atmosfera notturna e addirittura vagamente serena? Nemmeno "The Longest Year" lascia insoddisfatti, dal momento che segue pressappoco la scia crepuscolare del brano precedente facendo il suo figurone; ecco però che, come un fulmine a ciel sereno, arriva il primo vero capitombolo, vale a dire la ruffiana, barocca e zuccherosa ballatona di "Idle Blood", dove i Katatonia sembrano proprio voler fare il verso al manierismo degli ultimi Opeth.

Da questo momento in poi, purtroppo, toccherà subire uno sconfortante saliscendi ora nella noia, ora nella confusione, ora nel vuoto più spiazzanti: se rimaniamo un po' basiti di fronte a refrain eterei, ma fondamentalmente insipidi ("Onward Into Battle"), procedendo con gli ascolti dovremo sopportare lagne insignificanti che poggiano su riffing altrettanto vuoti ("New Light"), disordinati tentativi di far breccia a colpi di possenti ma monocordi schitarrate chugga-chugga ("Liberation") e, come se non bastasse, ulteriori dosi di diabete dopo la già stomachevole "Idle Blood" ("Inheritance", con tanto di violini e violoncelli a far da glassa). E che dire di "Nephilim"? Dà quasi l’impressione di uscire da "Viva Emptiness", peccato sia lentissima all’ennesima potenza, nonchè incredibilmente tediosa e seccante. Uno strazio, e non il genere di strazio che ci si aspetta dai Katatonia.

Il resto dell’album, ahimè, si mantiene su questi livelli, senza molte eccezioni: tutto scorre lento, lento, lento [...], lento come la melassa senza che accada alcunché di sorprendente, tutto si trascina senza molta dinamicità tra passaggi “heavy” inconsistenti/inesistenti e lunghi attimi più distesi e autunnali che, se in un primo momento possono apparire suggestivi, finiranno presto col scavare buchi all’interno dei brani, risultando così piatti e sfiancanti. Dell’inquietudine, dell’angoscia, della rassegnazione e delle altre atmosfere peculiari di un qualsiasi altro album del combo svedese non c’è più traccia se non nella conclusiva “Departer”, desolato viaggio che sfuma in una nebbia fittissima; è certamente una chiusura ispirata e rarefatta che però non alleggerisce il senso di vuoto totalizzante che affligge "Night".

Mi fermo qui.

Probabilmente chi ha letto la recensione fino a questo punto sarà rimasto un po’ scettico di fronte ad un giudizio così secco e negativo, comunque opinabile e, spero, alleviabile. Certo è che nessuno si aspettava un "The Great Cold Distance – Part 2", sarebbe stato troppo facile e in ogni caso non è affatto indole dei Kata ripetersi negli anni; peccato soltanto che questa nuova impronta lasciata dal gruppo sia lungi dall’essere indelebile (specie se confrontata con le precedenti), rimanendo tuttavia unica ed inconfondibile rispetto agli standard di oggi, come solo il marchio Katatonia ha sempre suonato e ancora sa suonare. Consoliamoci.

[Voto 5/10]

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