JOY DIVISION
UNKNOWN PLEASURES
Factory, 1979
Prodotto da Martin Hannett

Ian Curtis - voce
Bernard Sumner - chitarra, tastiere
Peter Hook - basso
Stephen Morris - batteria

1. DISORDER
2. DAY OF THE LORDS
3. CANDIDATE
4. INSIGHT
5. NEW DAWN FADES
6. SHE'S LOST CONTROL
7. SHADOWPLAY
8. WILDERNESS
9. INTERZONE
10. I REMEBER NOTHING

La prima gemma nera estratta dalla miniera di Macclesfield dai Joy Division, targati con la storica etichetta Factory; il punto di contatto tra punk e gothic, dove la rabbia si avvolge attorno alla desolazione e all’oppressione interiore. "Unknown Pleasures" è la trasformazione dei quattro da gruppo ruvido e sporco a magnifico incantatore di atmosfere, sotto la regia dello splendido stregone Martin Hannett. A differenza del successivo (e finale) "Closer", l’LP di debutto è solo lievemente elettronico, ancora carico di tutto il furore genuino della stagione punk, riletto attraverso le lenti appannate e claustrofobiche della poesia di Ian Curtis. "Unknown Pleasures" non è ancora la resa, l’abbandono inevitabile e razionale, l’accettazione della sconfitta nella lotta contro se stessi: è il passo precedente, l’interrogativo che gravita nel cervello e pesa sul cuore, i bagliori di luce mortuaria nel tunnel buio dell’esistenza, la vita che ancora si scuote in cerca di una spiegazione o di una risposta, prima che le nebbie anestetizzanti inghiottano tutto.

E’ il battito regolare e polveroso di Stephen Morris che introduce il capolavoro, spalancando le porte per il basso di Peter Hook, sempre pieno, pulsante e in movimento, ora nelle profondità cavernose del suono, ora negli acuti spettrali delle quattro corde. La chitarra di Sumner appare come un’affilatissima lama di luce che squarcia il buio circostante, riverberando in ogni angolo di questa foresta misteriosa e disorientante, prima che Ian Curtis appaia sullo sfondo: col suo crooning da Frank Sinatra della tomba, srotola meccanicamente il mantra di "Disorder", magnifica ed incalzante traccia d’apertura. Il movimento sussultorio della canzone è accompagnato dalla voce carica d’eco di Ian, mentre in lontanza spettri elettronici vengono scacciati dalla chitarra, saettante e ruvida al tempo stesso;  il vortice è continuo, impetuoso e senza via d’uscita, verso la prima realizzazione, delicatamente urlata in un panico prima moderato quindi violento: “I’ve got the spirit, but lose the feeling”. Il terremoto si spegne lentamente, roteando su se stesso, mentre un Ian Curtis spaventato ma rassegnato viene inghiottito assieme alle sue sensazioni ormai perdute.

Un incedere costante, lento e inesorabile caratterizza "Day of the Lords", accompagnato dalla gelida presenza della rarefatta chitarra di Sumner, ora lieve ora grattante, come un diabolico spiritello che si diverte a disturbare il corteo funebre in marcia verso i luoghi descritti da Ian: una stanza abbandonata, desolata e spoglia, dove le domande esistenziali ancora fluttuano nell’aria. Tormentato dalla possibile fine di tutto, Curtis dipinge il suo ritratto di vita deforme, contornato da un coro di suoni cupissimi, dove ombre si rincorrono saturando la mente: d’altra parte “non c’è spazio per i deboli”, e il terrore si legge nella voce increspata, sommersa dall’angoscia.
Sale dalla nebbia "Candidate", un’altra pagina dei diari personalissimi di Ian: la composizione musicale è ridotta all’osso, scheletrica e debole come il cantante. I fantasmi personali si possono però ascoltare, mentre gorgogliano e accarezzano i pensieri di Curtis, rassegnato all’idea di non riuscire più a comunicare e a entrare in sintonia con le persone una volta amate e ora così lontane, celate dietro un impenetrabile muro di apatia nebbiosa.
"Insight" è ferrosa e claustrofobica, gelida ed impersonale. Rinchiusi all’interno di una prigione arrugginita, i quattro sono immobilizzati dalla glaciale atmosfera musicale, scambiandosi ogni tanto qualche occhiata distratta, mentre i sensi lentamente abbandonano i corpi; di fuori, una feroce tempesta elettronica sbatte contro le pareti della cella, ma nulla riesce a ridestare i prigionieri per un tentativo di fuga: ormai non hanno più paura, avvolti da inconsapevoli ricordi di gioventù idealizzata e inchiodata alle loro menti.
E’ un crescendo strepitoso quello di "New Dawn Fades": nasce dalle viscere nere della Terra e sale verso un cielo infuocato, roteando in aria sorretta da un basso da antologia, per poi planare lievemente affiancata da ricordi nostalgici sotto forma di ectoplasmi di chitarra. Così soffice ed intimista, si incupisce sempre di più, cadendo lentamente ma inesorabilmente in quel baratro, creatosi dove una volta vi erano le emozioni, e schiantandosi a terra quando Ian realizza cosa lo stava ossessionando (“It was me, waiting for me”).

Le sensazioni, le angosce e i labirinti personali di Ian Curtis si fanno cronaca in "She’s Lost Control", ovvero il racconto della morte di una ragazza epilettica conosciuta sul lavoro. Ian, sofferente anch’egli della stessa malattia neurologica, rimase ovviamente sconvolto, fornendo il testo per uno dei manifesti della produzione di Hannett: malinconica, gracchiante, ossessiva e disturbata, la canzone fu uno dei primi successi del gruppo, grazie anche al ritmo travolgente impresso a questo affresco oscuro e vivido.
Ancora più scandita e veloce è "Shadowplay", vero punk rock buttato in una piscina di vernice nera e collosa; i paesaggi solitari e spogli di Ian Curtis sono visti da un’automobile in corsa, mentre misteriose e minacciose figure incombono sul viaggio. La chitarra di Sumner torna con prepotenza come elemento principe, stagliandosi sullo sfondo della corsa vorticosa verso l’orizzonte grigio che è la canzone, di sicuro il pezzo più energico dell’album.

"Wilderness" sembra ricalcare le mosse da marionetta impazzita che Ian faceva sul palco, mimando e accentuando gli scatti epilettici che ben conosceva. Al di là della critica alla Chiesa posata nelle liriche, la canzone è il consueto metronomo furioso arricchito di vortici polverosi di chitarra.
E’ un rincorrersi di voci invece "Interzone", basata sui racconti di Burroughs di una città cosmopolita, fascinosa ed arabeggiante. Graffiante e dondolante, richiama le prime esperienze più dirette di "An Ideal For Living", per un passaggio meno oscuro ma ugualmente intrigante.
Se gli ultimi due pezzi erano ruspanti, veloci e ruvidi, "I Remember Nothing" è lentissima, impantanata in un limbo nebbioso di anestetico; il basso scava note dal profondo degli Inferi e la batteria avanza stanca ma decisa, mentre la chitarra sfrigola in lontananza, lottando con i soliti fulmini elettronici che compaiono a tormentare l’esistenza di Ian. La marcia è inesorabile ed instancabile nel suo incedere da morto vivente, dritta verso la fine e il sollievo dell’oblio.

"Unknown Pleasures" ha un’importanza incommensurabile per quello che sarà il panorama musicale anni ’80 e ’90, anello di congiunzione tra la musica secca e diretta e l’introspezione oscura ed elettronica. La rabbia primordiale si sta trasformando in apatia, prima della rinuncia definitiva di "Closer". Il risultato musicale è strepitoso, affascinante ed avvolgente, manifesto seminale di quella stagione gothic che verrà, e al contempo raro capolavoro che unisce la musica spettrale e nera alla poesia inquietante e magnifica di quel triste genio di Ian Curtis.

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