Il primo disco non era male. Una ventata di rabbiosità inserita in un contesto cantautoriale "giovane" e un po' indie-punkettone. Testi evasivi. Derivativi. Intimisti e pieni di rimandi al vissuto personale del Brondi. Ma la sensazione che avevo, ascoltandolo, dopo un po' di volte, è stata quella dell'associazione con Manuel Agnelli degli Afterhours: sparare a pallettoni contro stormi di uccelli, sicuro che "almeno uno lo becco". Molta depressione.

Questo secondo lavoro non si discosta dal precedente di una virgola. Come una montagna di cianfrusaglie sulla quale abbiamo investito i nostri desideri di sparizione. Avrebbe potuto spostarsi da sola, forse anche scomparire. Sparire per sempre. Ma è rimasta li. E' sempre stata li ed è sempre stata uguale. Album che ho rifiutato dopo appena tre brani. Una cosa che non mi succedeva da anni.

"Per ora noi la chiameremo felicità". Ma noi chi? Ciò che sentiamo non è che (ormai) la glorificazione di un'autocitazione divenuta ormai strutturale, senza più contenuto. Un contenente in cui annotare pensieri random sprezzanti un'unica volontà orientata al fastidio. Un rullo compressore con problemi di avviamento che attraversa lento l'autostrada dei nostri coglioni.

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