Uscito nel giugno del 1991 "Holding Our Breath" è il terzo ep degli Slowdive uscito appena tre mesi prima del capolavoro "Just For A Day", la band formata nel 1989 a Reading, trova in Rachel Goswell e Neil Halstead i punti cardine di una formazione destinata a diventare una delle migliori espressioni di quel movimento chiamato shoegaze nei primi anni novanta.

Ispirati dai padri del genere, quei My Bloody Valentine che in quel 91' avrebbero sfornato il catartico masterpiece "Loveless" gli Slowdave elaborarono in fretta, fin dal primo omonimo ep del 90' un'approccio molto differente dai loro colleghi irlandesi, i wall of sound chitarristici dissonanti ci sono, ma non così imponenti ed onnipresenti, le melodie sono eteree e sognanti, ma anche tristi e malinconiche, inoltre l' incedere ritmico che nei MBV era quasi sempre teso e irruente qui si dilata e si espande lento, statico, narcotizzato, un'approccio allo shoegaze che punta su atmosfere rarefatte, quasi ambientali.

L'ep è composto da quattro brani, che per impatto e forza immaginifica avrebbero potutoi tranquillamente fare parte dell'intenso album di debutto, ed infatti "Catch the Breeze" venne inserita anche in "Just For A Day", ma è l'unico pezzo di questo ep che verrà poi ripreso su full-leght. Gli Slowdive erano ormai pronti al grande salto del debutto vero e proprio, rispetto ai due ep precedenti il suono è mosso ancora con più forza e convinzione verso i suoni eterei ed evocativi che verranno di li a pochi mesi, l'apertura è affidata proprio a "Catch The Breeze", forse il pezzo più conosciuto della band (anche se qui è suonata una versione ancora più lenta ed atmosferica del brano) con un'inizio dominato da splendenti melodie al rallentatore e le voci della Goswell e di Halstead che si intrecciano in fluttuanti mantra di pura meraviglia, affondando il loro canto in melodie celestiali e dolci ondate dissonanti di feedback. "Golden Hair", una cover di Syd Barrett, resa completamente irriconoscibile e stravolta dalla band, tanto che l'unica cosa che sembra avere in comune con l'originale scritta dall'ex mente dei Pink Floyd sia il testo (un poema di Joyce), l'ammaliante voce rimbomba nel vuoto, quasi tremante si adagia su ondate di rumore fino ad infrangersi contro una nenia malinconica e rassegnata creata dalle chitarre, destinata anche lei a sfumare tra il meraviglioso caos.

"Shine" è aperta da squarci rumoristici su cui si fa strada pian piano un'intenso melodiare, un continuo abbraccio tra la bellissima voce della Goswell ed i ricami eterei, malinconici ed illuminanti del resto della band, tra attimi di pura ipnosi sonica e ripide voragini celestiali, "Albatross" chiude il cerchio: un suono sempre più atmosferico e mistico, voci tra l'etereo e l'afflitto, melodie questa volta appena accennate sfuggono via, accompagnate ancora una volta dall'ipnotico frastuono e da risvegli ritmici fino a questo momento rimasti in ombra. Tutto era pronto, tempo qualche mese ed uno dei migliori album di sempre avrebbe visto la luce.

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