Ash: cenere, dissoluzione, morte.

Ra: sole, energia, vita.

L'opposizione vita-morte; l'eterno, netto, inconciliabile dualismo fra luce e buio, fra calore e gelo, fra materia e vuoto, tradotto in musica nell'esperienza di una formazione inarrivabile. Espressione di un universo rigorosamente e inevitabilmente dicotomico, manicheo, diviso fra entità opposte in perenne conflitto, lacerato dall'incessante spinta di avverse pulsioni. Celebrazione del tempo infinito, dell'eterna continuità, del "flusso" senza principio e senza fine. Narrazione atemporale di un viaggio senza ritorno, perdendosi fra inafferrabili suggestioni ancestrali e la percezione d'uno spazio non concreto, non misurabile, non euclideo; è lo spazio abnorme, informe e smisurato della psiche, indescrivibile entità popolata dalle creature prodotte dal subconscio. Infine, apoteosi del "senso", dell'emozione, dell'originaria, primitiva ed imprescindibile funzione "evocativa" della materia musicale. 

Questo (e solo questo?) è l'album di debutto degli Ash Ra Tempel, ma "verbalizzare", ridurre in parole l'Esperienza di chi, almeno una volta, ha avuto l'inesprimibile fortuna di ascoltare quegli sconcertanti quarantacinque minuti è un "delitto", una mancanza di rispetto di cui, sin da ora, mi scuso. Perché applicare criteri razionali (o semplicemente, maldestramente tentare di farlo) a qualcosa del genere è operazione impropria, forse anche insensata, e tuttavia necessaria per provare a dar conto di quanto questo album sa trasmettere, con immutata veemenza espressiva, ancora dopo quarant'anni. Ben sapendo, però, che ben poco è ciò che di "umano", in senso stretto, si riesce ad ascoltare.

E' il 1971. E non è un'annata qualunque, soprattutto per il nascente Kraut-Rock: è l'anno di "Tago-Mago" dei Can, l'anno di "Tanz Der Lemminge" degli Amon Duul II, l'anno di "Affenstunde", esordio dei Popol Vuh, l'anno infine (e soprattutto, direi) di "Alpha Centauri" dei Tangerine Dream. Annata cruciale, dunque, per l'evoluzione delle nuove sonorità teutoniche, e annata importante proprio per l'uscita dell'album in questione, registrato in formazione a tre da una band già da qualche tempo segnalatasi nella Berlino alternativa di quegli anni: era il 1967 quando Manuel Gottsching, letteralmente folgorato dall'ascolto di Hendrix dopo aver studiato per anni chitarra classica, si era unito al compagno di scuola Hartmut Henke nell'effimero e dimenticato progetto dei Bomb Proofs. Cambieranno più volte nome, si chiameranno anche Steeple Chase Blues Band, prima di un inevitabile "viaggio di formazione" a Londra (è il 1970) che convincerà i due, ancora musicisti sostanzialmente "dilettanti", a dedicarsi a tempo pieno ad un nuovo, complesso e personalissimo progetto musicale. Nella contagiosa frenesia di quei giorni, condividono gli stessi studi di registrazione di Agitation Free e Tangerine Dream, e convincono il batterista di questi ultimi, tale Klaus Schulze, ad entrare in formazione. Non casuale la scelta della classica formula del "trio" da parte dei Nostri, sul modello di Experience e Cream, loro ispiratori dichiarati.

Ed è il marzo di quel fatidico 1971 quando i tre (che da pochi mesi si fanno chiamare Ash Ra Tempel) entrano in studio ad incidere, per l'etichetta Ohr, quello che diverrà l'archetipo, il massimo riferimento stilistico della nuova "kosmische musik", sconcertante e suggestivo fin dalla straordinaria (e ormai arcinota) immagine di copertina (opera di Bernhard Bendig), raffigurante la (doppia) porta d'ingresso al tempio di Ra, sommo dio del sistema politeista egizio, e personificazione dell'estetica musicale del gruppo: Ra è spesso raffigurato, nell'iconografia tradizionale, mediante il suo solo occhio - che gli Egizi identificavano con la luce del sole, e il serpente (si ritiene sia una femmina di cobra) che sporge dalla sua corona è simbolo di potere, di difesa mortale contro i nemici; è soprattutto l'emblema dell'energia vitale che anima il cosmo e ne previene la caduta nel caos. I temi della morte, del degrado, della dissoluzione sono invece richiamati da una luminosa citazione, presente fra le note di copertina, di parte di "Howl", il visionario poema di Allen Ginsberg in cui il poeta beat identificava negli Stati Uniti e nella società industriale, idealmente rappresentati dal dio Moloch (cui, stando al Levitico, era usanza sacrificare bambini)  il mostro responsabile della malattia, della demenza, della fine dei migliori intelletti della propria generazione.

Dualismo antitetico, si era detto inizialmente, e l'architettura prescelta a dar conto di questa tensione oppositiva ne è la più netta conferma: due lunghe composizioni per lato, per quello che diventerà il "canone" riconosciuto di ogni futura velleità "cosmica", e brani che sin dal titolo rivelano le proprie sostanziali caratteristiche.

"Amboss" ("incudine") si sviluppa nelle forme di un lento ma perentorio crescendo che, dall'apertura marcatamente sognante e meditativa, conduce a un'improvvisa, violenta, traumatica esplosione di suoni paragonabile ad una tempesta di sabbia in pieno deserto: ruvida e graffiante acid jam dai risvolti psichedelici, si è detto e si è scritto, ma la definizione pare fin troppo semplicistica e riduttiva. La chitarra di Gottsching (non ancora diciannovenne, si pensi) "urla", si contorce spaventosamente, vomitando lancinanti e inarticolati fraseggi di vago sapore Blues con aggressività brutale, Schulze da forma a un ostinato, frenetico "continuum" batteristico che non lascia respiro, Henke esplora, dal manico del proprio Gibson Bass, inusitati e illogici sentieri di atonalità. La spettrale, mostruosa disinvoltura esecutiva del chitarrista si arricchisce, nell'evolversi della narrazione, di moduli scalari arabeggianti, liberamente ispirati alla prassi esecutiva del "maqam" del Vicino Oriente. Sabbia negli occhi, null'altro, e ascoltatore precipitato senza pietà fra i tortuosi e cacofonici itinerari che preludono alla chiusura, lenta agonia fra spasimi riverberati e angosciosi.

"Traummaschine" ("macchina dei sogni") è l'esatto contraltare di "Amboss", il suo ideale e simmetrico rovesciamento: ciò che si ascolta nei primi sette-otto minuti è una degna anticipazione di "Zeit" dei Tangerine Dream, austera solennità tastieristica fra oniriche e raggelanti atmosfere, senso di eterna, sepolcrale, impalpabile sospensione. Poi la chitarra inizia impercettibilmente a risvegliarsi, a palpitare, a emettere sussurri scavati nella profondità del silenzio, come gocce a frequenza crescente, finché tra l'esaltazione di danze tribali prende forma un retroscena percussionistico incaricato di accompagnare la "voce" sempre più forte, sempre più sostenuta del solista. La struttura "ad anello" del pezzo impone un parziale ritorno al contesto sonoro iniziale, questa volta però reso più incisivo dalla presenza del basso e della chitarra, ora parte integrante dell'"atmosfera" complessiva alla pari dell'elettronica (gestita in collaborazione da Gottsching e Schulze), prima della chiusura riservata a due strati sovrapposti di chitarra, fra note distillate con sapienza fino allo "spegnimento" definitivo, conclusivo, totale.

Album semplicemente fuori categoria. Molti di voi avranno già sperimentato, ma ai non-iniziati consiglio vivamente di maneggiare il prodotto con estrema cautela: non è un oggetto terrestre.          

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