In copertina: Joni Mitchell (pittrice, 1943) "Autoritratto di donna inossidabile, ma molto insoddisfatta". Ecco la didascalia che metterei sotto questa immagine, e la associerei anche a questo disco indecifrabile, che ha il potere di scatenare dentro di me un conflitto tra orecchio e mente.

Da una parte c'è l'orecchio, porco e ingordo, che se ne starebbe anche per tre ore a crogiolarsi nel suono maestoso e potente di una grande orchestra jazz, a bearsi della perfezione raggiunta dalla voce da vecchia ammaliatrice di Joni, ormai a suo agio anche nell'interpretare una selezione bella e non troppo scontata di canzoni dei tempi che furono, veri e propri standards anni '30, '40 e non solo. A volte le firme sono di autori rinomati come Hart-Rodgers o Koehler-Arlen: di questi ultimi è la classicissima "Stormy Weather", più nota nelle versioni di Frank Sinatra e di Ella Fitzgerald... e dico poco. Altre volte gli autori hanno nomi più oscuri, ma è sempre materiale di gran classe. Intelligente è anche la sequenza di questi classici, che rappresenta le diverse fasi di un rapporto amoroso, dalla scintilla iniziale alla disillusione. Altri validi argomenti alle ragioni dell'orecchio li forniscono le preziose apparizioni di Wayne Shorter al sax (soprano e tenore) e di Herbie Hancock al piano, anche se quest'ultimo si concede per un solo brano.

Però la musica non si ascolta solo con gli orecchi, ma anche con la mente, oppure, come dicono quelli romantici, con il cuore. Fin dalle prime canzoni la tendenza istintiva alla goduria è turbata da una raffica di domande prepotenti: - Che senso ha questo disco? A cosa serve? Cosa vuol dimostrare con un disco del genere la più grande delle cantautrici, dopo più di 30 anni di carriera in cui si è costruita una solida credibilità, e di quelle che durano, con la SUA musica e con i SUOI testi? Non ne ho la più pallida idea. Mi viene in mente un disco impostato in modo simile: "Songs From The Last Century" di George Michael. Anche lui gioca a fare il vecchio crooner, riuscendo se non altro a dimostrare di avere una bella voce, il che per un cantante non guasta. Ma lui fa parte di un altro mondo, quello della musica leggera, leggerissima, ha da farsi perdonare di averci inondato, con o senza Wham, di canzoncine fessacchiotte per gran parte degli anni '80. Per un George Michael fare un disco del genere è un punto di arrivo, ma per una Joni Mitchell che cos'è? Boh, forse quell'espressione insoddisfatta della copertina nasconde la voglia di togliersi un lussuoso sfizio da signora matura e annoiata, ma conoscendo parecchio di quello che ha creato in precedenza, proprio non riesco ad abituarmi all'idea che ad un certo punto abbia sentito il bisogno di immedesimarsi nei panni di Barbra Streisand.

Altra cosa che non mi quadra: che ci fanno nella raccolta quelle due SUE canzoni, "A Case Of You" e "Both Sides Now"? Non perché siano indegne dei vecchi standards, ma semplicemente perché non c'entrano nulla, non sono neanche confrontabili, è tutto un altro genere, nonostante il goffo travestimento "invecchiante" a cui sono state sottoposte. Specialmente per "A Case Of You" più la senti più ti viene voglia di riascoltare la scarna versione originale (da "Blue"), con le sue chitarre, metalliche e magari un po' sgraziate, ma autentiche. Sentite le ragioni dell'orecchio e quelle della mente, non resta che il verdetto: disco paradossale, ben fatto e prezioso, ma perfettamente inutile, come un bel soprammobile di lusso.

Carico i commenti... con calma