Nell’era dell’mp3 in cui tutto si può reperire e tutto si può conoscere, in cui mille ascolti si dimenticano nella bulimia sterile che ordina e crea classifiche di fine anno, i progetti svaniscono tanto rapidamente quanto sono nati: il rischio è di galleggiare in superficie. Io ho premuto il pedale del freno, trovando punto di riferimento in realtà a lungo termine, in artisti che hanno sviluppato il loro linguaggio lentamente, mattone dopo mattone. Il significato è anche nel percorso fatto.

Non c’è niente da buttare in venti anni di Red Red Meat e Califone: innumerevoli scrigni pieni di emozioni minute, un mondo timido la cui sostanza è nei particolari, dove poco è altisonante e tutto è sfaccettato ed intimo.

Tim Rutili canta pigro versi non chiari, cesella immagini e melodie che sembrano un talking blues metropolitano trasfigurato in canzone. Percussioni e synth creano spazi sonori cinematografici, cornici in cui possibili Brian Eno e Neil Young disegnano soundtracks per cortometraggi western. E pensare che era tutto iniziato dal grunge.

Ma ora è folk ed elettronica: sostituite nei Wilco la depressione con una calma meditativa, il pop con le radici americane. Semplicemente adoro il suono sferragliante della chitarra slide, è il segno più riconoscibile del legame che questa musica aliena ha col blues e le roots, con le terre polverose e i paesaggi sconfinati, i falò e le stelle.

I dischi dei Califone non sono capolavori ma buoni compagni di viaggio. Come per altri autori che hanno costruito ed elaborato in tanti anni le proprie idee, l'ultimo lavoro può essere il migliore. Ogni volta.

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