ONTO PICKNICKMAGICK

Nonostante il capolavoro (l'ennesimo di una lunga serie) "Black Ships Ate The Sky" (2006) e l'ottimo "Aleph At Hallucinatory Mountain" (2009) avessero segnato l'impetuoso ritorno in scena della leggendaria Corrente sul finire degli anni '00, l'inizio del nuovo decennio non si è rivelato molto proficuo (a livello di contenuti, s'intende) per l'infaticabile David Tibet, sempre più preso da una frenesia produttiva e sempre meno attento a lasciar respirare a dovere la propria ispirazione apparentemente inesauribile.
Se lo scarno, ma comunque ispirato e suggestivo "Baalstorm, Sing Omega" (2010) lasciava intravedere giusto qualche crepa a dispetto dell'immarcescibile immaginario allucinato del nostro profeta dell'apocalisse, le uscite successive, pur non essendo veri e propri disastri, hanno fornito più perplessità che conferme: in ordine, l'inutile appendice ambient di "Haunted Waves, Moving Graves" (2010), il piatto e deludente "Honeysuckle Aeons" (2011), il live per soli fan di "And When Rome Falls" (2012) e infine persino il singolo "I Arose As Aleph, The Speller, The Killer" (2013), accompagnato da un libro con le orripilanti illustrazioni realizzate da Tibet stesso.
Più che un genio alla deriva, David Tibet dava l'impressione di aver bisogno di una nuova carovana di artisti che lo aiutasse ad incanalare le sue visioni: in tal senso, un lavoro modesto come "Honeysuckle Aeons" risentiva moltissimo della mancanza di Michael Cashmore, o meglio ancora del fido e sempiterno compagno di giochi Stapleton. Ecco perché, una volta annunciati i dettagli del nuovo album in uscita quest'anno e leggendone la line-up rimpolpata, le aspettative sono giustamente salite alle stelle: Bobbie Watson dei Comus, Jack Barnett dei These New Puritans, sua maestà John Zorn, di nuovo Blackshaw e Antony, addirittura Nick Cave. Insomma, non dei pistola qualunque.
"I Am The Last Of All The Field That Fell: A Channel", inaugurato l'8 febbraio al concerto alla Union Chapel di Londra, con la sua durata massiccia di 68 minuti e la consueta copertina del cazzo (per fortuna l'unica cosa accostabile ad "Honeysuckle Aeons") si impone come un nuovo caposaldo nella discografia dei Current 93, raggiungendo come minimo i livelli del monumentale "Black Ships Ate The Sky" e a parer mio superando persino l'esplosivo "Aleph At Hallucinatory Mountain". Ma tali (personalissimi) confronti non devono trarre in inganno: con un inevitabile sguardo al passato, "I Am The Last..." ci riconsegna un artista ancora in grado di rifuggire le etichette e di rinnovarsi dopo ormai tre decadi di onorata carriera, attingendo prima di tutto da se stesso, suonando meravigliosamente autoreferenziale e al contempo puntando sempre dritto, verso non si sa quali altri lidi musicali/concettuali.
Apocalittica come la tradizione esige, ma molto meno folk del solito, la Corrente si riavvicina in gran parte al soffice intimismo pianistico di capolavori immensi quali "Soft Black Stars" e l'EP "Hypnagogue", riappropriandosi al contempo delle intuizioni psych-rock che hanno reso celebri l'ormai ventennale "Lucifer Over London" e il più giovane "Aleph At Hallucinatory Mountain"; e non a caso nel carrozzone di musicisti spunta quella vecchia cariatide di Tony McPhee, chitarrista dei preistorici Groundhogs (già tributati peraltro nel sopracitato "Lucifer Over London"), a cui si deve quell'aria un po' retrò che aleggia sui brani come uno spettro del passato. Innegabile poi è la novità apportata dal sax di Zorn, ora schizzato e ora sinuoso, non così invadente come verrebbe spontaneo credere, e che assieme al clarinetto e al flauto di Jon Seagroatt contribuisce a rendere la musica ancora più profonda, straniante e avvolgente di quanto non lo sia già per conto suo.
Gli attuali Current 93 vengono introdotti dalla mesta marcia di "The Invisible Church": batteria, piano (Baby Dee è ora sostituita dall'eccentrico Reinier Van Houdt) e i sospiri della Watson affiancano un Tibet spettrale, mentre clarinetto e chitarra acustica intarsiano qua e là la struttura di un brano in sé piuttosto minimale, riecheggiante la stasi compositiva del precedente album, nonché l'introspezione del ben più grande "Soft Black Stars". Il primo impatto può forse spiazzare, ma i pochi dubbi vengono subito fugati dalla seguente, splendida "Those Flowers Grew": Tibet adagia i suoi consueti deliri da invasato (finalmente!!) su un insolito e intensissimo crescendo, mentre il sax bipolare di Zorn, il piano onnipresente e le strimpellate elettriche ad opera di un divertito McPhee non fanno che amplificare l'esperienza. L'alchimia tra i musicisti è palpabile e David si trova evidentemente a suo agio alla guida di questa nuova stramba carovana - e vorrei ben vedere!
Se da una parte possiamo definire piuttosto marginale il contributo di Blackshaw e Liles (impegnati rispettivamente al basso e nella rifinitura dei brani), dall'altra di sicuro i fan si pasceranno del ritorno di grandi nomi quali Antony Hegarthy e Nick Cave: il primo offre un'interpretazione a dir poco da brividi nella sentitissima "Mourned Winter Then", facendo sfigurare le sue mere comparsate corali in "Black Ships Ate The Sky"; e a Cave spetta una seconda volta il compito di chiudere in gran bellezza un album a mo' di ciliegina sulla torta, riportandoci indietro per un attimo alla purezza cristallina di "All The Pretty Little Horses" e alla rivelazione finale di "Patripassian", qui ridimensionate in un semplicissimo letto di tasti bianchi e neri ("I Could Not Shift The Shadows").
Altri momenti, questi, di pura magia: non per niente costituiscono gli episodi più familiari alla profonda malinconia di "Soft Black Stars" (e scusate se lo nomino ogni tre righe, ma è uno dei dischi della mia vita), discorso che vale anche per l'altrettanto struggente "With The Dromedaries", ennesimo stralcio di apocalisse interiore in cui Tibet si fra protagonista assoluto col suo tono concitato e singhiozzante, le sue parole illuminanti, la sua poesia infinita, così come suonava più di vent'anni fa in quell'Opera senza tempo che risponde al nome di "Thunder Perfect Mind".
Come non citare poi il picco assoluto dell'album, "And Onto PickNickMagick"? La sintesi perfetta degli odierni Current 93, altro crescendo dall'inizio minaccioso e appena dissonante, destinato a collassare in un finale di urla spiritate e psichedelia ammattita. Per non parlare poi della spensierata, graziosa ballata di "I Remember The Berlin Boys", o delle sventagliate dal vago sapore southern di "The Heart Full Of Eyes", o dei lamenti desolati di "Why Did The Fox Bark?".
Forse non tutti i momenti sono azzeccati allo stesso modo, forse in qualche brano le idee sembrano girare un po' a vuoto come nella corsa sbilenca al pianoforte di "Spring Sand Dreamt Larks" (risollevata comunque dalla folle intromissione di Zorn), oppure nella sfocata "Kings And Things"; ma in linea di massima la Corrente di "I Am The Last..." vince su tutti i fronti, pur senza rivoluzionare o cambiare troppe carte in tavola - semmai le rimescola con accortezza. Non ci sono dubbi, quindi: lungi dall'essersi perso per strada, il leggendario David Tibet ha dimostrato ancora una volta di essere dieci passi avanti rispetto al lavoro dei suoi compatrioti (Pearce, Wakeford, Stapleton...); ma soprattutto ha dimostrato di essere sempre e comunque Primo tra tutti, su tutti, oltre tutti, NeiSecoliDeiSecoliAmen. (4,5) 

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