Arrivati al termine del film non ci resta che sprofondare nel silenzio più attonito e tetro, proprio come lo stesso Tsai Ming-Liang ci suggerisce senza alcun compromesso col finale terrificante, rasentando il metacinema. Perché tradurre a parole una simile esperienza sensoriale e al contempo metafisica equivale in ogni caso a sminuirla: si potrebbe parlare della potenza, della crudezza e della poesia incredibile che trasuda da ogni immagine; della fotografia che si fa pura arte e delizia, controbilanciando la maestria scultorea nel cogliere ad ogni inquadratura la più straziante miseria; del tempo che scorre così lento da non esistere più; delle mille domande che spuntano a raffica e dei vuoti di pensiero che seguono subito dopo; della glaciale assenza di speranza e pietà per l'uomo, che qui, identificato senza mezzi termini con la specie canina, marca il territorio col piscio, si ciba di avanzi avariati e rifugge qualsiasi contatto fisico, sessuale, emotivo. Ecco, potremmo parlare di questo e tanti altri dettagli preziosi per la comprensione di un lavoro così faticoso e tormentato, ma gran parte di quanto detto finora non rappresenta alcuna novità particolare nel cinema di Tsai - un cinema dallo stile cristallino/cristallizzato e sempre autoreferenziale, dove il tutto è più della somma delle sue parti sia a livello microscopico (ciò che compone il film) che macro (la filmografia stessa).

Quel che resta veramente da dire si può riassumere in poche righe: Stray Dogs (Leone d'Argento alla Biennale di Venezia 2013) non è altro che l'ultima, solenne espressione di un regista ormai disperato e conscio di essere giunto alla fine del proprio vicolo cieco: il suo discorso si fa perentorio e sconfortante, la sua proverbiale classe nel girare (scolpire, modellare, immortalare) i propri film qui raggiunge uno stato di grazia indiscutibile. Proprio a partire da questi presupposti potremmo affermare che si tratta in fondo di un'opera dedicata solo a chi conosce bene l'artista e non ha bisogno di sapere a cosa andrà incontro: qui si conclude, dopo vent'anni di carriera e dieci lungometraggi, il cammino del personaggio-feticcio Hsiao-Kang/Lee Kang-Sheng, divenuto padre di una famiglia allo sbando, senza futuro, sull'orlo della disgregazione; e parallelamente il regista decide di chiudere per sempre col mondo del cinema e coi suoi fedeli spettatori, abbandonandoli a se stessi, non senza aver prima scagliato a terra un testimone pesantissimo da raccogliere, un'eredità di pensiero cui nessuno vorrà farsi carico. E così, sul finale calerà (piano, inesorabile) un drappo di silenzio opprimente, allucinante, insostenibile, rivelatore: gli spettri che popolavano lo schermo hanno lasciato le scene; rimaniamo solo noi, e il nostro vuoto assoluto da fissare, contemplare, temere. Un'anticatarsi muta, un epitaffio destinato a imprimersi per sempre nella memoria.

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