"A quanto pare la Terra non si è spostata dal proprio asse quando i Sunn O))) e gli Ulver si sono trovati a Oslo in quella fatidica notte", e se lo dice O' Malley, c'è da dargli retta. Mago del marketing e della provocazione, "dolce metà" artistica di Greg Anderson in seno ai Sunn O))), per bravura, fortuna o buona promozione una delle formazioni più influenti sul fronte della musica estrema del terzo millennio, Stephen O' Malley tende a sminuire la portata di quello che in verità è per molti un sogno che si avvera: vedere i loghi di Sunn O))) e Ulver uno accanto all'altro sulla copertina del medesimo album. Hai voglia a dipingerla come uno scazzo fra amici: un'operazione del genere inevitabilmente crea grandi aspettative, non solo nei fan delle due band, ma anche in tutti coloro che seguono con interesse le evoluzioni di una musica "estrema/non più estrema/ma pur sempre estrema (almeno concettualmente)" di cui le due formazioni sono (in)credibili rappresentanti. Ebbene: non si griderà al miracolo, ma un ghigno beffardo di malefico compiacimento si materializzerà sul nostro viso.

Scaturito da una sessione compiuta nella lontana estate del 2008, quando i Sunn O))) atterrarono in quel di Oslo come ospiti dell’Øya Festivalen, poi ritoccato negli anni a venire ed infine dato alle stampe agli albori del 2014, "Terrestrials" è  la comunione di due entità musicali tanto lontane nella forma quanto vicine nello spirito: un percorso che parte da lontano, agli albori della decade dei novanta, quando gli Ulver erano ai primi passi e suonavano ancora black-metal, e i Sunn O))) nemmeno esistevano (germogliava allora l'amicizia, inizialmente epistolare, fra O'Malley e Kristoffer Rygg, anni in cui carta e penna, raccomandate e cassette registrate non erano ancora state soppiantate da internet). Un'amicizia che si è protratta silenziosamente nel tempo, riaffiorata nella seconda metà degli anni zero con la stesura di un brano, "CutWOODed", scritto a quattro mani, anzi otto: quelle di O' Malley ed Anderson, e quelle di Rygg e Tore Ylwizaker, all'epoca l'altra metà degli Ulver, già approdati al mondo dell'elettronica. Fu poi la volta dell'esperienza Aethenor, che vide la compresenza di O' Malley, Rygg e Daniel O' Sullivan (che di lì a poco sarebbe divenuto il "quarto" membro degli Ulver) nelle lavorazioni che portarono a "Betimes Black Cloudmass". Qualche data dal vivo insieme e poi finalmente un disco vero e proprio, questo "Terrestrials" che andiamo adesso ad analizzare.

Tre lunghi brani per una durata complessiva di trentacinque minuti è il risultato di cinque anni e mezzo di lavoro discontinuo fra il Crystal Canyon ed Oslo: se all'epoca delle sessioni originarie i Sunn O))) lavoravano a quel "Monoliths & Dimensions" che ad oggi rimane il loro ultimo lavoro in studio, capolavoro della maturità, già pervaso da quegli umori jazzy che potrebbero aver sfilato proprio dalle tasche dei colleghi norvegesi, gli stessi Ulver a loro volta avevano da poco pubblicato il buonissimo "Shadows of the Sun", raffinato saggio di ambient da camera che avrebbe loro aperto una nuova via, quella che gli avrebbe presto condotti a "Wars of the Roses", ed in seguito al loro ultimo (capo)lavoro, il superlativo "Messe I.X-VI.X", con il quale questo "Terrestrials" ha paradossalmente più di un aspetto in comune. Stiano quindi tranquilli gli estimatori dei lupacchiotti: è vero che qui si parla la lingua del drone-ambient nel tipico dialetto Sunn O))), ma nello svilupparsi dell'intera opera, fra il lento decorso dei droni e le maestose impennate verso i lidi del trascendentale, sarà ben evidente il loro tocco, quella strana ed indefinibile essenza che caratterizza il tortuoso cammino dei norvegesi, tappa dopo tappa, da "Perdition City" ai nostri giorni.

L'opener "Let There Be Light" richiama fin dal titolo i Pink Floyd di "A Saucerful of Secrets", evocati nelle atmosfere in più di un frangente (già: per questa volta lo spettro sabbathiano è lasciato in soffitta!). Il brano, nel corso dei suoi dieci minuti e passa, si evolve lentamente, strisciando inquieto nelle basse e dense nebbie di un ambient dominato da chitarre riverberate e solenni rintocchi di basso, una foschia di tanto in tanto squarciata dallo svolazzare tagliente di una tromba di chiara marca ulveriana, fino al possente finale in cui la medesima tromba, scossa da pesanti percussioni, pare tramutarsi in quella del giudizio: è forse l'evocazione del sole, rito paganeggiante antico come il mondo stesso, rivitalizzato attraverso un linguaggio avveniristico che celebra l'inquieta psichedelia del terzo millennio. E' il lento passaggio dalle tenebre alla luce che viene descritto attraverso queste note.

Se il secondo brano "Western Horn" è un incubo dronico che non fa altro che riprendere diligentemente il discorso intrapreso con il pezzo precedente, forse con l'intento di scavare ancora più a fondo nell'inconscio dell'ascoltatore, il quarto d'ora di "Eternal Return" permette a Rygg & soci di ergersi dal vischioso franar di basso e chitarre, e dare la zampata vincente: è infatti al settimo minuto, dopo suadenti fraseggi di gelida elettronica, a sprazzi accarezzata dai volteggi di viola e violino, è al settimo minuto si diceva, che compare finalmente la voce di Rygg. Con la sua fugace comparsata (un tipico "crescendo garmiano", dalle bassissime tonalità sepolcrali alle stelle, su su e sempre più velocemente, lungo una ripida escalation di epiche declamazioni) è proprio il leader maximo degli Ulver (una voce, una sicurezza) ad apporre la firma sul momento più emozionante dell'opera. Opera che, ricordiamo, gioca molto, se non tutto, sulle sfumature, forte di suoni eccellenti ed una cura in sede di mixaggio che ha del maniacale.

Viaggio "al di là della parte oscura", che si tratti di metafisica, ascesi spirituale o scavo psicoanalitico, "Terrestrials", non è niente di più, niente di meno, di quanto ci si possa aspettare da Sunn O))) e Ulver insieme. Con bene in mente le parole di O' Malley – "Non siamo né Miles Davis né John Coltrane" – sta al singolo ascoltatore giudicare se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto.

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