28 Giugno 1992

La carriera musicale dei Thin White Rope si conclude con un concerto in un piccolo Club di Gand, in Belgio, un paese che come buona parte dell'Europa ha saputo apprezzarli in particolar modo: una storia iniziata nel 1984 nell'assolata cittadina di Davis in California, che ha regalato cinque meravigliosi album ed una serie di mini LP composti dalle più disparate cover.

Il gruppo di Guy Kyser e Roger Kunkel è ormai alla deriva; forti tensioni interne, dovute ai dubbi sul proseguimento della carriera e sulla direzione musicale da scegliere, hanno minato il rapporto e l'amicizia tra i due membri storici. Anni spesi in continui ed estenuanti tour promozionali, soprattutto nella nostra Europa, non hanno portato quel ritorno economico atteso anche dalla stessa casa discografica, con vendite di dischi di scarsa portata; siamo entrati in un buio vicolo cieco che non da speranza alcuna per il futuro.

Ma prima della traumatica dissoluzione arriva il loro ultimo concerto in assoluto, presso il Club "Democracy": un doppio disco per una durata complessiva che sfiora le due ore e che rappresenta un degno finale di una formidabile carriera almeno a livello musicale. Sono le parole dello stesso chitarrista e cantante Guy, leggibili all'interno del booklet, a chiarirci la situazione: il locale dove si apprestano a suonare può contenere trecento persone, forse qualcuna in più; fa caldo e lo si avverte sulla stessa pelle degli spettatori e dei musicisti; i bagni sono posizionati all'interno del backstage rendendo l'atmosfera ancora più pregna e densa di neri umori che esploderanno nel disco con inaudita potenza. Non ci sono barriere divisorie con il pubblico ed il piccolissimo palco sul quale i nostri devono muoversi trasmette un contatto non solo visivo, che rende il tutto ancora più vivo, sentito, diretto.

Ho sempre paragonato il Club belga, proprio per le caratteristiche sopra descritte, con il mitico ed unico Bloom di Mezzago dove tutto è similare, dall'atmosfera, al caldo, alle dimensioni del palco che ti permettono di "toccare" i musicisti: questi sono per me i locali migliori per gustarsi un vero concerto.

Anche la stessa copertina ci viene in aiuto per comprendere l'atmosfera che si respira: un immagine in bianco e nero che ci mostra Guy di fronte al pubblico, avvolto dal fumo denso che rende l'aria quasi irrespirabile; una sensazione claustrofobica che le dimensioni ridotte del locale non fanno altro che amplificare. Ma i ragazzi sembrano non curarsi affatto di tutto ciò, sono pronti a salire sul palco e dare per un ultima volta fuoco alle polveri, dando libero sfogo alla loro indole, al loro sound di ferale bellezza, attraverso le ventisei canzoni che compongono questo loro epitaffio in musica.

Si parte con l'incalzare di "Down in the Desert", dal titolo emblematico, che mette subito in chiaro la direzione battagliera che prenderà il concerto; tocca poi alla scheggia impazzita di "Eleven", dove in poco più di due minuti si annichilisce l'ascoltatore con un assalto sonoro all'arma bianca. Non c'è tregua, non c'è respiro alcuno, e si prosegue giungendo dalle parti del loro disco capolavoro "In the Spanish Cave" omaggiato con un trittico di canzoni da capogiro: "Mister Limpet" dall'incedere heavy-country dove le sferraglianti chitarre del binomio Kyser-Kunkel spazzano via ogni residua speranza di non venire frastornati da questa bomba sonora; la gemella "Elsie Crashed the Party" con un feedback di chitarra che si appoggia alla voce di Guy mai così sgraziata e tirata allo spasimo, con la ritmica di Matt alla batteria e Stooert al basso che è una garanzia di ulteriore bilanciata potenza; ed arriva "Red Sun" dove i ritmi folli finalmente concedono un minimo si tregua, solo apparente: un brano di una bellezza disturbante, con il suo incedere mantrico, incrocio e ponte virtuale tra melodie arabeggianti e ritmi latini....da urlo!!!

Ma è ancora una canzone breve a far rialzare la tensione emotiva sopita: "Tina and Glen" fulminante cavalcata acidissima dove il Rock lisergico, figlio del deserto da dove provengono i ragazzi, ci ricorda quello che hanno rappresentato per il movimento neo-psichedelico degli anni ottanta. Sono presenti anche alcune cover che vengono proposte dal gruppo in modo personale, ma senza stravolgerle: mi piace ricordare "Yoo Doo Right" dei Can, "Outlaw Blues" di Bob Dylan e "Silver Machine" degli Hawkwind. Ed arriviamo al brano che considero il capolavoro dell'intero concerto: "It's Ok" lungo e onirica canzone che ha un muro sonoro dal sapore ipnotico, con un finale rumoroso dove le due chitarre ed il basso vengono maltrattati a livello distorsivo e le pelli dei tamburi resistono a stento alla furia incontrollata di Matt. E' presente in rete il filmato di questo brano del concerto, del quale consiglio la visione per capire l'esatta atmosfera anche dalla parte del pubblico.

Siamo alla fine, si stacca volutamente la spina con le note della brevissima "The Clown Song" solo voce e chitarra: ma non vorremmo mai smettere di lasciarci avvolgere da questo finale così intimo, struggente, emozionante.

Ho concluso mentre il mio fedele stereo diffonde le meravigliose note di "Hunter's Moon" con un finale dove le due chitarre si inseguono in una progressione lisergica stellare ma fisica allo stesso tempo, che mi lascia ancora una volta senza parole......

Ho voluto con questo personale scritto omaggiare un gruppo troppo spesso dimenticato, che ha saputo regalare momenti in Musica di pura bellezza e che resteranno per sempre tra i miei preferiti. Grandissimi Thin White Rope.

Ad Maiora.

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