Ritengo che gli Anathema siano tra i gruppi più interessanti in giro oggi, una band che è stata in grado di cambiare radicalmente più e più volte, passando dall'iniziale doom metal agli eterei lavori di vent'anni dopo, per poi approdare in questo Distant Satellites in una seconda parte molto electronic-oriented, anche se non si tratta di nulla di radicalmente nuovo per la band.

L'hype per questo lavoro, che doveva portare avanti la bandiera alta del successo di critica e pubblico ottenuto con Weather Systems nel 2012, era alle stelle. Ora posso finalmente dire di non essere rimasto deluso, non in maniera consistente, quantomeno. Sarò breve nel recensire questo album, dal momento che non avrebbe alcun senso soffermarsi sulla descrizione approfondita di ogni pezzo: questo album va semplicemente ascoltato, per fare esperienza diretta delle emozioni che è in grado di sprigionare e sulle quali non si può che tacere.

L'album si apre come il precedente, ossia con un brano diviso in due parti, che verranno seguite da una terza a metà dell'album. La prima impressione su The Lost Song Pt.1 è che sia tutto un po' affrettato: la voce parte quasi subito, la struttura si evolve in modo un po' più imprevedibile del solito (specie dal punto di vista armonico, ma anche il ritmo in 5/8 gioca la sua parte) e le voci si intrecciano secondo un climax che solo a brano finito risulta sensato. Anche per arrangiamenti, il brano ricorda abbastanza Untouchable Pt.1, soprattutto se mettiamo in parallelo anche il secondo brano del trittico, The Lost Song Pt.2, che come il corrispettivo dell'album precedente si evolve in maniera perlopiù acustica e dominata dalla soave voce di Lee Douglas. Ciò che emerge da questi primi due brani è grossomodo ciò che permane per la durata dell'intero album: una performance vocale strepitosa, che forse ruba un po' di tempo di troppo agli strumentisti, che dal canto loro non si esimono dall'esibirsi in occasionali assoli di grande spessore (Danny Cavanagh, che in alcuni pezzi successivi risulterà devastante), né da sperimentare ritmi inusuali o comunque protrarre un lavoro di batteria di qualità senza precedenti nella storia della band, complice forse anche l'introduzione del tastierista/batterista Daniel Cardoso in supporto allo storico batterista John Douglas. I crescendo dei brani sono sempre presenti, ma forse resi un po' meno scontati da scelte armoniche e di arrangiamento più imprevedibili, il ché non può che giovare ad una band che da una decina d'anni usa grossomodo la stessa struttura per gran parte delle canzoni.

Con Dusk (Dark Is Descending) i toni si fanno più cupi, addirittura connessi in qualche modo al passato della band (qui pare di ascoltare un brano tratto da Eternity, per certi versi). Non a caso, molti dei brani qui presenti – anche se non è il caso di questo, nello specifico – sono stati recuperati da antiche demo, rivisti e adattati al sound attuale della band, con risultati che, vedremo, hanno dell'incredibile. Il brano di cui si parlava si evolve con un ottimo lavoro vocale, fino ad un breakdown che reintroduce melodie più usuali alla band di questo periodo, che si evolvono fino all'ottimo finale. Con Ariel, si tocca un picco: dalle meravigliose melodie vocali di Lee Douglas, accompagnate da un bel piano, la situazione si evolve con arrangiamenti orchestrali e con un'entrata in scena di Vincent Cavanagh che porta ad altissimi livelli il contrappunto tra i due vocalist. Infine, per coronare il tutto, si inserisce anche Danny Cavanagh a concludere il brano in modo grazioso, inserendo anche la sua voce.

Giunti a The Last Song Pt.3, il primo singolo estratto dall'album, possiamo assistere ad una delle progressioni più emozionanti della carriera della band, con degli intrecci vocali molto toccanti e un finale tanto toccante quanto energetico. Notevole è anche la reintroduzione, dopo tanto tempo di assenza, del piano elettrico, che fa da padrone (almeno finché le chitarre non lo sovrastano). Ottimo anche il lavoro di basso di Jamie Cavanagh Tocca poi ad Anathema. Un brano che porta il nome della band che lo compone deve essere qualcosa di memorabile. Nel caso degli Anathema, il brano è realmente autobiografico e perfettamente bilanciato tra una prima parte più incentrata sulla voce di Vincent (l'unico rimpianto, per questo pezzo, è l'assenza totale di Lee), che si esibisce in una performance vocale senza precedenti, di grande spessore sia emotivo che tecnico, e una seconda parte strumentale, contenente uno degli assoli di chitarra più intensi degli ultimi anni, e non parlo solo della band inglese. Ergo, com'è giusto che sia, Anathema dovrà diventare un classico, un cavallo di battaglia live che non mancherà di estorcere qualche lacrimuccia anche ai più abituati.

Si entra infine nella parte sperimentale dell'album: innanzitutto compare You're Not Alone, un pezzo molto antico in termini di prima stesura, che figura come uno dei brani più pesanti che il gruppo abbia mai composto, lasciando da parte ovviamente i primi album. La cosa interessante è che, nella sua breve durata, il brano riesce ad unire al metal i riff malati di Danny Cavanagh e soprattutto le inattese percussioni elettroniche di John Douglas. Il tutto dona al brano una freschezza disarmante, anche se si esaurisce molto in fretta. La voce, filtrata e parlata, conclude degnamente il discorso iniziato con Get off, Get Out e The Storm Before The Calm. Segue Firelight, un pezzo ambient a base di chitarra forse evitabile in quanto non particolarmente originale o d'atmosfera, ma funzionale semplicemente all'introduzione della titletrack. Distant Satellites viene introdotta da un pattern di batteria elettronica realmente ricco, che nessuno si sarebbe mai aspettato di sentire in un album degli Anathema. Sull'arrangiamento etereo e sostenuto soltanto dalle percussioni elettroniche, si stanzia la soave voce di Vincent Cavanagh, che segue delle melodie vocali che sembrano avere poco a che fare con quel tipo di canzone. La seconda parte del brano vede una batteria più lineare e delle sonorità ancora più elettroniche, un arrangiamento più pieno e una riproposizione del ritornello sostenuta anche dall'apporto vocale di Lee Douglas. La conclusiva Take Shelter fa risuonare echi di una certa celebre band post-rock islandese, con un lento incedere proprio di memoria post-rock (al di là del riferimento ai Sigur Ròs), per culminare con un outro che mescola ancora una volta le percussioni elettroniche a delle prorompenti orchestrazioni sostenute da un impianto rock, che nel complesso rimanda alla titletrack di The Raven That Refused To Sing, ultimo album di Steven Wilson, che è stato peraltro coinvolto nel mixaggio di alcuni pezzi (compreso questo).

Insomma, gli Anathema non deludono, anche se forse nemmeno sorprendono più di tanto, eccetto per alcune canzoni veramente memorabili. Di certo, comunque, l'album merita di essere ascoltato più e più volte, di essere apprezzato e di ottenere la nostra anima, pedaggio richiesto da certa musica affinché possa dare realmente il massimo di ciò che racchiude nella magia della propria essenza.

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