Emerge dall'acqua, dalle griglie scoppiate delle fognature in un tramonto di valium, pannoloni comodissimi e detersivi sublimi. Entra dentro te attraverso i cristalli liquidi dallo schermo ultrapiatto che tieni in salone, sfonda gli elettrodi e divora pixel. Senti? Riesci a sentirlo come lo sento io? Assenza di periodicità, assordante entropia rigenerabile. Fragorose esplosioni di seghe mentali e retoriche, prodotti da masticare, ingerire, metabolizzare, da mettersi su per il culo. Da spalmarsi sui denti mentre la mattina esci di corsa da casa con la consapevolezza che chiunque ti stia intorno in quel momento farà lo stesso dopo di te. Sei un punto interrogativo, prostrato nella scalata del tuo avvenire. Cambi epidermici artificiali che ti fanno sentire rigenerato. Pronto per un altro giorno.

E’ probabile che io possa provare imbarazzo ora. Non è facile parlare di un leviatano letterario evitando di spiegarne il proprio organismo o da quale intuizione divina sia stato generato. Chi conosce gli abissi sa di cosa parlo. Cerco di evitare stilismi, cerco di rendere gradevoli le informazioni. Non posso scaricare responsabilità, perciò: Don DeLillo potrebbe considerarsi oggi il santone immortale, tutt'ora vivente di una generazione che guarda con occhi magnetici un orizzonte di progresso inarrestabile e cannibale. Tra gli ultimi cavalcatori della bestia morente del post-modernismo. La progenie di proseliti, devoti, allievi surclassanti veramente grandi con colleghi illustri. Sezionatore di miserie domestiche e mondiali da ormai quarant'anni, riesce benissimo a trasportare il lettore attraverso gironi artificiali in un limbo di false rassicurazioni, abitati da persone che cercano di uscirne pur essendo consapevoli - ogni dannato giorno della loro esistenza - che dovranno farlo utilizzando i mezzi che gli vengono proposti dalla collettività che temono e di cui fanno inesorabilmente parte.

Underworld è il colosso, la voragine scavata da una scarica elettrica celeste nel terreno pronta ad inghiottire consumatori schizofrenici, esplosioni radioattive, cedimenti emotivi e incubi quotidiani. E lo fa, lo fa trascinandoti sempre più dentro fino a che i fotoni del sole nella volta celeste che penetrano da fuori si riducano ad un puntino distante a cui viene tesa la mano fino a spezzarne i legamenti. Lo fa incominciando da una partita tra i Brooklyn Dodgers e i New York Giants. Lo fa dal nono inning, Ralph Branca lancia a Bobby Thomson. Miracolo della creazione. Pafko è al muro e guarda. Jackie Gleason, Frank Sinatra, J. Edgar Hoover guardano. Lenny Bruce. La crisi dei missili a Cuba. Trionfo della morte. E' la storia di persone comuni come Nick Shay, inabissato dal tedio, che smaltisce i rifiuti, che ha speso gran parte della sua vita cercando di venire ai patti con la scomparsa di suo padre. Secondo lui il simbolo delle Lucky Strike è un bersaglio. E' la storia di un'artista pop che dipinge aeroplani dismessi e che è sicura che il primo nome dato alla bomba atomica sia stato "merda". Ma prima lo è di Cotter, un bambino afroamericano che quel 3 Ottobre del '51 ha afferrato la palla di Bobby Thomson per poi perderla di nuovo. La palla continua a camminare e ricostruisce i fatti di una popolazione disfunzionale. Non voglio raccontarvi altro. Pafko è rimasto al muro. 

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