Pensando a dei cavalli liberi nel cielo, la mente può per un attimo illudersi che l'immagine possa esprimere un pensiero poetico limpido e leggero, salvo poi rendersi conto che quei destrieri potrebbero essere cavalcati dalla sofferenza e dal disagio di una vita in cui è sempre più viva una generale consapevolezza d'impotenza dinanzi all'incedere dell'aridità umana.
Viviamo tutti i giorni all'insegna della morte, chi in prima persona, chi solo di riflesso, nutrendo per autodifesa una sorta di abitudine, che diviene presto indifferenza e facile inganno di potersi liberare da dei pesi così opprimenti da impedirci di volare. Allora si fa finta di niente e non si fanno più domande su ciò che ci circonda, perché sono sempre le stesse e poi ci rimbalzerebbero indietro senza risposta.


Efrim Menuck, invece, vuole ancora urlare al mondo i suoi "Perché?" e lo fa con questo disco che contiene more questions than answers sul suo e nostro circostante. Però lo fa affranto, mostrando un crudo malessere ed un pessimismo acre al punto da fare davvero male. Non è, quindi, facile ascoltare l'ultimo sofferto lavoro di questo ensemble canadese, perché su ferite, aperte e mai cicatrizzate della coscienza umana, questa musica getta del sale, forse con l'intento di risvegliarci dal torpore, dall'abitudine al dolore e ricordarci che non dobbiamo cadere nella banalità del male.
Ciò accade già dal monumentale principio del disco, rappresentato da un'intensa suite antimilitarista, "God Bless Our Dead Marines". Si sviluppa con gli archi sullo sfondo, che ripetono un ritmo lugubre, base cupa ed inquietante su cui si innesta la voce di Efrim Menuck. Questa annuncia: They put angels in the electric chair, in the electric chair, in the electric chair ed arrivano le scosse rappresentate dai violini, che appaiono "rubati" alla tradizione kletzmer; poi pian piano si aggiungono echi di chitarra, percussioni ossessive e l'incedere incerto di un pianoforte, dando la sensazione di un lento crescendo tragico. La strada per l'inferno è così tracciata, non resta che percorrerla accompagnati dalla ripetizione lancinante del tema e del battito delle mani, finché una chitarra elettrica distorta non giunge a dare un'ulteriore scossa, quella fatale che preclude inesorabilmente la via del ritorno. Quasi dodici minuti di lancinante sofferenza, chiusi da un canto corale, lasciano l'impressione che in questo disco l'intenzione del gruppo sia quella di abbracciare strade in parte diverse dal passato.
Il post rock dilatato cede il passo a delle stranianti sonorità folk vicine alla forma canzone, in cui diviene fondamentale il ruolo degli archi e della voce, mentre la chitarra elettrica svolge spesso una funzione abrasiva e a tratti allucinante ("Mountains Made Of Steam"), che diviene valore aggiunto e tratto caratteristico di una musica che toglie il respiro per la capacità di generare profondamente visioni del dolore.

Se pur non del tutto assenti, sembrano così più distanti i suoni dei "Godspeed You! Black Emperor", specialmente quando sentiamo Efrim Menuck intonare le parole della title track, "Horses In The Sky": una ninna nanna feroce sui nostri tempi (... and these are violent times/and violence brings more violence/and liars bring more lies...) che ti svuota l'anima nota dopo nota.
Con il cuore spezzato ascoltiamo questa voce, prima in una forma ipnotica ("Teddy Roosevelt's Guns"), poi sempre più disperata, che, come quella di un pulcioso cane bastonato, urla alla luna riflessa in una pozzanghera tutta la sua angoscia ("Hang On Each Other"), accompagnata da un coro che diventa sottofondo alienante. Poi giunge un finale ("Ring Them Bells") apoteosi e sintesi di tutto questo percorso, con ancora gli archi ed il pianoforte protagonisti iniziali a supporto della voce persa successivamente nel suono di ronzanti chitarre che, come un uragano, sconvolgono tutto portandoci di colpo in un silenzio tombale forse mai così assordante.

Questa musica non è un passatempo, ma un violento pugno nello stomaco, così forte da farti lacrimare e sputare sangue. Ora lo sapete, a voi dunque scegliere se continuare a ripetere va tutto bene oppure iniziare ad urlare anche voi le vostre domande.

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