Musica descrittiva e non protagonista, ma che tutto pervade, ripetitiva perchè tutto quel che è perfetto si ripete ciclicamente. Solo noi, pazzi esseri umani, obbediamo al caso, agli impulsi. D’un’altra età è la musica del popolo che mostra la voce e il silenzio, il sussurro e il grido, il tormento e l’estasi del vivere quotidiano. Dalla furia degli elementi noi abbiamo preso le distanze, uno strato isolante ci protegge dal contatto col legno, con la pietra, col metallo, col virus. E in questo ambiente asettico celebriamo la nostra esperienza di un’esistenza neutra. Preservati così, idolatriamo la vita, ossessionati come siamo dalla conservazione e dal restauro. La mancanza dell’elemento sorpresa nelle nostre vite si rispecchia in un’assenza di dinamica (a beneficio degli ignavi: la distanza in volume tra il pianissimo e il fortissimo) in queste composizioni che è illuminante, se comparata con realizzazioni simili del periodo psichedelico.

Non riusciamo ad accettare che, proprio perchè c’è un tempo per ogni cosa, tutto ha una fine. Senza i nostri padri, noi non saremmo qui, ma se loro fossero ancora qui, non ci sarebbe posto per noi. La fine è condanna, certo, ma è anche liberazione - per chi va e per chi resta. E, oltre il confine con la realtà, scheletriche ed essenziali, queste presenze sonore diverrebbero improvvisamente irrilevanti, se una produzione milionaria nascondesse la loro scarna semplicità. Grazie alla rozzezza della strumentazione, i suoni di questo disco potrebbero essere i file che, tra cent’anni, frugando tra radiazioni, plastiche disciolte e rottami arrugginiti, si potrebbero trovare scaricando la memoria di un computer sfondato: oggetti digitali che è un caso si possano leggere acusticamente e che più probabilmente sono i comandi di un programma o un listino prezzi. Richard James sbozza con colori primari ritmi che non ballano, melodie che non si fischiettano, nebbie che non si levano. E’ stato definito il “Mozart dell’ambient” e, come quella di Mozart (che io reputo di una superficialità e frivolezza insopportabili) la sua musica si resiste a varcare la soglia del profondo, riluttante (forse incapace) com’è a impelagarsi in sentimenti più impegnativi di un vago senso di isolamento, di alienazione o di abbandono.

Talmente allergiche all'utilitarismo da non avere neanche titolo, queste pulsazioni elementari della quinta, ventura glaciazione rivelano la futilità delle passioni ancora accese. Dalla realtà si esce attraverso una porta di servizio al limitare della coscienza, del visibile. Là si perdono i sensi e si viene pervasi da uno stato alterato di sospensione, di dislocamento, di sublimazione della materia. La fosforescenza di queste apparizioni ne rivela la natura magica, quasi ultraterrena e il suono è soffocato come nell’alone di un sogno. Aphex Twin filma, abusando dei suoi circuiti stampati, minuscoli misteri da guardare con i pop corn a portata di mano.

Ho atteso per anni, con grande aspettativa, la sua Sinfonia n. 40. E’ regredito invece in un terrorismo musicale spiazzante, sì, ma che in ultima analisi gli si è ritorto contro. E, in questi tempi in cui la carriera di un artista dura sì e no due album, possiamo ormai dichiararlo fuori tempo massimo. Il piacere di ascoltare questo disco adesso è pura nostalgia di un’età innocente. Di un tempo in cui la musica aveva ancora – ma ancora per poco – il potere di sorprenderci. Forse Richard James è stato davvero l’ultimo degli innovatori.

Carico i commenti... con calma