Confesso di avere un debole per una determinata categoria d'artisti.

Quelli che in ambito pop sembrano destinati, fin dagli esordi, a fermarsi a due passi dal successo. O meglio, che decidono, non del tutto consapevolmente, di relegarsi in quella sorta di terra di nessuno che ospita coloro che "avrebbero tutto per", capacità di scrittura, un pugno di canzoni da brividi, anche il physique du role e che, invece, finiscono per divenire cantanti di culto per "malati" della mia risma.

Essi si collocano su di un crinale dal quale basterebbe poco per farli intraprendere una trionfale, o rovinosa, dipende dai punti di vista, "discesa libera". Sarebbe sufficiente smussare un po' gli spigoli, semplificare gli arrangiamenti troppo ricchi, evitare atmosfere umbratili e "bittersweet", affidarsi alle sapienti mani di un produttore di grido per vedere schiudersi le porte della celebrità. Ma a loro ciò non interessa. Continuano imperterriti a fare quello che l'ispirazione gli detta, cesellando i loro pezzi e levigandoli fino a farli divenire quasi diafani. Un posto di rilievo nel mio Olimpo abitato da questi losers baciati dalla musa, poco ambiziosi e molto testardi, è occupato dal songwriter californiano, ormai quasi quarantenne, Eric Matthews.

Talento precocissimo, diplomato al conservatorio, buon trombettista e polistrumentista alla bisogna, con una formazione musicale molto varia ed "onnivora", anche la classica non è disdegnata, il nostro si fa conoscere nel '94 come sublime coautore e arrangiatore dell'omonimo debutto dei 'Cardinal', album unico, in tutti i sensi, e solo del duo formato insieme all'amico Richard Davies. La sua ormai ultradecennale carriera discografica conta in tutto solo altri tre lavori, ad ulteriore testimonianza del percorso artistico alquanto accidentato: l'ultimo datato 2005, un'inattesa resurrezione, "Six Kinds of Passion Looking For an Exit", il primo da solista, "It's Heavy in Here" ('95), un misconosciuto classico del pop orchestrale e "massimalista" e "The Lateness of The Hour" ('97), sul quale vorrei soffermarmi.

Il brano d'apertura, dal titolo vagamente decadente "Ideas That Die That Day", contiene già molte delle ragioni che mi hanno spinto ad aderire alla ristretta cerchia dei suoi seguaci: una voce che gli inglesi definiscono "breathy", una via di mezzo tra Elliott Smith e Nick Heyward, una non comune capacità di saper coniugare il meglio della tradizione pop americana con quella "albionica", una sensibilità da songwriter di vaglia, un fine gusto dell'arrangiamento (l'arrangiatore è attualmente il mestiere che gli dà da vivere). In "To Clear the Air" tiene saldamente la bacchetta da maestro, dando vita ad un piccolo gioiello di pop orchestrale da camera, con la partecipazione della sua "The 451 Philharmonic". Con "Yes Everyone", uno dei picchi dell'album, pare di ascoltare un Elliott Smith meno tormentato, trasferitosi nelle brumose "highlander" scozzesi. Comunque, le song del nostro non sempre hanno bisogno di "condimenti" sostanziosi. In "Everything So Real" basta ed avanza un "chitarrabassobatteria" per dar vita ad una sublime pop song parente prossima di quelle degli XTC più spensierati.

Ma non vorrei privare coloro che riporranno fiducia nelle mie insufficienti parole delle succulente sorprese che troveranno in "The Lateness of The Hour", abbandonandomi ad una disamina esaustiva e capillare. Sappiate solo che una disciplinata fantasia contraddistingue l'album e che non c'è un brano uguale all'altro. Un percorso alternativo potrebbe essere quello di partire dalla fine con il brano n°13, "No Gnashing Teeth", summa in quattro minuti del miglior pop solare di tre decenni a questa parte, con la tromba del nostro, protagonista nel finale, a dare quel "nonsoche" di nostalgico.

Conoscere Eric Matthews ed entrare tra gli officianti del suo culto sotterraneo, potrebbe essere tutt'uno. Sarò lieto di accogliere tutti questi nuovi adepti personalmente.

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