Faceva freddo nei primi ottanta. E l'odore di plastica iniziava a diffondersi nell'aria. Nell'aria giravano parecchi suoni. Si respirava certa musica per riscaldarsi. Perché certe voci colpivano al cuore, all'anima e al cervello. Parlavano, cantavano, urlavano ossessioni. Si ascoltavano perché erano anche le nostre. Perché c'erano cantori eccellenti capaci di esorcizzarle, queste nuove ossessioni. Cantori dell'età del ghiaccio (Ian Curtis). Cantori della rabbia sociale (Joe Strummer). Cantori della disintegrazione dell'individuo (Robert Smith), dell'insostenibile leggerezza (Marc Almond), delle paure ancestrali (Peter Murphy). Tutte, o quasi, voci maschili. Ma dov'erano le donne?
Le donne erano all'ascolto. È una loro prerogativa. Poi si misero a cantare e cambiarono quella certa musica. Si misero a fantasticare di sogni e incubi (Liz Fraser e Lisa Gerrard). A sussurrare promesse (Sade). A recitare poesie urbane (Suzanne Vega). Donne & microfoni. Carmel, Lennox, Moyet e via scendendo. Nell'antologia di voci femminili di quel periodo un capitolo importante lo merita Anna Domino. Distante dalla celebrità forse perché distante dalla Britannia, terra su cui erano orientate tutte, o quasi, le orecchie. Nata a Tokyo Anna Taylor trascorse l'adolescenza tra Firenze e Ottawa. Poi la New York dei fine settanta (qualcuno ricorda i primissimi Polyrock?). Infine Europa. A Bruxelles trovò una casa, quella discografica. I Dischi del Crepuscolo. E due produttori. Alan Rankine ex Associates e Marc Moulin dei Telex (quelli di Moscow Discow per intenderci). Con loro Anna realizzò le cose migliori. Synth-pop stiloso e atmosferico. Condito di venature jazz e ritmica elettronica. Timbrica vocale sofisticata e suadente. Un ideale, quanto improbabile, crocevia tra l'enigmatica Laurie Anderson e la malinconica Tracey Thorn.
Semmai esistesse una madrina per tutte quelle voci uscite dalla fredda Scandinavia. Una madrina per Stina, Hanne, Karin. Ebbene potrebbe essere lei, Anna Domino. Autrice di testi fragili, visionari, interrogativi. Tipo: "Vorrei camminare come una donna africana. Vorrei parlare in sing-song" (Rythm). Oppure: "Metà di me stessa vorrebbe vendere la mia anima, tutto il resto dice aspetta, controlla" (Half of Myself). Entrambi i brani impreziositi dal sax struggente di Steven Brown. E proprio i Tuxedomoon l'avrebbero potuta assoldare. Per un disco, almeno. Perché la sua voce era perfetta per interpretare le atmosfere notturne e cinematiche del grande ensemble. Nulla, invece. Anna Domino preferì restare fedele al suo compagno polistrumentista Michel Delory che la affiancò per il resto di una carriera proseguita senza infamia nè gloria. Ma restano quei primi dischi. "East and West" e "Anna Domino". Rimasterizzati e addizionati di bonus tracks. E a prendere i brani migliori dei due, quelli dove gli arrangiamenti la sostengono al meglio, ne vien fuori una collezione che ancora oggi meraviglia.
Un'istantanea perfetta di quel periodo. Metà ottanta. Quando le donne si misero a cantare e sconvolsero la musica. Quella pop, perlomeno.
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