«All in the Family» è una serie televisiva di grande successo negli Stati Uniti, andata in onda dal 1971 al 1983, approdata anche in Italia su scassatissime televisioni locali, con il titolo «Arcibaldo»: ne è protagonista Archie Bunker, razza bianca, razzista, gretto, ignorante, per di più sovrappeso ed eternamente sprofondato nella sua poltrona.

Emmett ha quindici anni e suona la batteria.

Cullen ha diciassette anni e suona l’organo, ma in precedenza suonava il basso.

Sono i fratelli O’Connor.

Sono nati e cresciuti a Cleveland, Ohio, Stati Uniti d’America.

Non sono mai andati a scuola, sono istruiti dai loro genitori.

Amano la musica.

Dici Cleveland e vengono in mente decine di bande seminali per la scena punk e new wave.

Così ti aspetti che Emmett e Cullen traggano ispirazione proprio da lì.

Sì e no.

Emmett cita tra le sue influenze Johnny Cash, Martin Denny, Jim Morrison, Max Roach, Jon Spencer, oltre che proto-punk e punk rock.

Cullen butta lì a sorpresa Jimmy Smith e Procol Harum, accompagnati dagli scontati Damned e Cramps.

Bene, mettono su un gruppo insieme, loro due e basta; perché gli amichetti, di musica vera, intendono poco o niente.

Adottano il nome di Archie and The Bunkers, anche se entrambi sono millenials e quella serie è sparita dalla circolazione quasi vent’anni prima che loro vengano al mondo; probabile che neppure i loro genitori l’abbiano mai vista, forse i nonni.

Sul perché, sono evasivi: «Ce ne siamo venuti fuori con questo nome un giorno mentre eravamo seduti a tavola per il pranzo», magari dopo aver assistito alla replica di una puntata trasmessa da qualche televisione via satellite, tra una breaking news ed un reality show.

La line-up è fatta da batteria ed organo.

Finora s’erano visti decine e decine di combo chitarra-batteria, a partire dai primi, notevoli White Stripes, fino ad epigoni-cloni sempre meno notevoli.

Un combo organo-batteria non s’era mai visto.

Sulle pagine sbiadite delle fanze di Cleveland un nuovo genere comincia ad aprirsi faticosamente un varco, l’organ-punk, ed è una gran cosa.

Tipo i Damned che jammano cogli Screamers.

Perchè ci sarebbe pure da spendere due parole sull’immagine di quei ragazzini, e di Cullen in particolare, che, con quei capelli arancioni sparati in aria e quegli occhiali da sole, è la copia sputata di Captain Sensible.

Pure questa è davvero una gran cosa.

Le prime apparizioni in concerto, senza nessuna timidezza.

I primi demo.

I primi contatti con gruppi di fuori; Detroit Cobras e Blaire Alise & The Bombshells sono quelli fondamentali, tramite per Jim Diamond ed il Ghetto Recorders, storie sotterranee di assoluto rilievo.

Sul finire del 2015 esce il disco, omonimo, peraltro l’ultimo ad essere registrato nel Ghetto Recorders, che chiude i battenti appena terminate le sessioni.

Ci sono dentro dodici brani, sei per lato.

Il lato A è quello bluesy, scuro e melmoso, anche se non mancano bordate propriamente rock come in «You’re the Victim» e «Different Track»: il lato doorsiano, se si vuole tornare alle influenze citate da Emmett.

Il lato B è l’esplosione roccherrolle, il lato dannato per dirla alla Cullen, e pezzi come «Miss Taylor», «I Wish I Could», «Trade Winds» e «The Last Stooge» non ammettono repliche, si poga e si va di headbanging senza porsi troppo domande.

A giugno Emmett e Cullen chiuderanno i quaderni e riporranno penne e matite negli astucci.

Salteranno sul primo aereo transcontinentale e sbarcheranno in Italia.

Ci si vede a Salsomaggiore, bambini.

Ci si vede a Salsomaggiore, adepti dell’organ-punk.

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