Quattro 19enni che compongono un album simile. Non c’è storia. Io a 19 anni mi grattavo da mattina a sera, sognavo a occhi aperti nella mia stanzetta ascoltando musica (un po’ quel che faccio adesso).
Una canzone di 8 minuti come “Remember Last Time” dovrebbe fugare qualsiasi dubbio di sopravvalutazione, le mie orecchie applaudono ogni volta l’ascolti. Un rock dal midollo folk che attinge a piene mani dalle folte radici della musica americana (classica, non tradizionale).

M’immagino questi ragazzini intenti ad ascoltare Robert Johnson, Woody Guthrie, Tim Buckley, passando per Buddy Holly, buona parte della musica sixties: in primis Jimi Hendrix fino ad approdare oltreoceano al suono dei Kinks o dei contemporanei Suede. Questo pentolone di storia musicale se lo cuociono a puntino gli Avi Buffalo, che, aggiungendo chitarre surf “tipically californian” qua e là, contribuiscono a trasportare la loro musica fuori da delimitazioni temporali o di genere. Chiaro come non sia difficile sentire a tratti nel loro sound i migliori interpreti di questa ingombrante eredità U.S.A.: gli Wilco. Non attribuisco alcuna originalità a questa band. Non c’è nulla di rivoluzionario in questo debutto, è “solamente” pura musicalità cristallina.
I quattro di Long Beach sono ragazzi solamente all’anagrafe, lo capiamo con le chitarre di “Truth Sets In”: la sua simmetria nostalgica propone quella che è una perfetta trasposizione musicale di un lontano ricordo. Canzoni che sembrano fatte per catturare come “What’s in it For?” si rivelano molto più profonde di quel che sembra, come le grida ancestrali che la spegono.

Quello degli Avi Buffalo è un gioco di specchi in cui sta a noi porci accorgerci che sono perle quelle lanciate. Tutte le canzoni sono incantevoli, ciascuna a suo modo. Scorrono veloci una dopo l’altra la litania trascinata di “Jessica”, la dolce ballata country di “One Last” (che ammicca all’irish-folk dei Turin Brakes), gli umori altalenanti soul-rock di “Five Little Sluts”. Sul tutto aleggiano i trilli caustici di Avigdor Zahner-Isenberg (fedeli anche dal vivo) e tematiche sporche, apparentemente stupide e prive d’inibizioni, tipiche dei pensieri d’adolescenza horny. Lascio dire a voi se il cinismo di “Summer Cum” le rappresenta in modo appropriato. Non è mai stato così bello essere giovani e naive.

In attesa dell’imminente secondo album possa una maledizione cadere su chi non ha ascoltato la miglior cosa uscita dall’America di qui in capo a parecchi anni, sottovalutatissimi… non è mai tardi per rimediare vecchi.

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