B. Mardones, S/T, Curb, 1989

Nella “top five” dei vocalists AOR di sempre, B. Mardones è, per antonomasia, “the voice”. Quando salì sul palco in occasione di una commemorazione del leggendario R. Orbison, nel 1989, nessuno lo conosceva: lo chic rocker di Syracuse eseguì alla perfezione uno dei cavalli di battaglia di Orbison, “Running Scared”, e il pubblico lo omaggiò con una gigantesca “ola”.

Negli anni ’80, Benny attraversò un periodo molto duro: la morte del produttore, B. Mraz e la propria tossicodipendenza furono mazzate da cui fu difficile risollevarsi. Ma il leone di Syracuse si risollevò, più forte di prima.

Il disco in questione, il mitologico “Blue Album”, si presenta subito bene, anche esteticamente: copertina con Benny quasi in disparte, nella notte, con volto stanco ma pronto al combattimento, che guarda in cagnesco lo sbadato acquirente. Tra i musicisti coinvolti nell’opus magnum (non menzionati di seguito) anche J. Porcaro.

“I Never Really Loved You at All” è caratterizzata da una soffusa linea melodica di tastiere, cui segue il ruggito del vecchio rocker da catapecchia di provincia. Refrain glorioso, con incluso singhiozzo e splendido raddoppio tastieristico di M. Mangold, poi datosi ad un inconcludente “New Age”. Testo convenzionale, ma onesto: ovviamente, non siamo qui per i testi.

“For a Little Ride” è un midtempo relativamente aspro. Niente di eccezionale, ma anche quando parla, verso la metà della track, Benny è ammaliante.

“How Could You Love Me” inizia con una delicata melodia tra tasteire e chitarra, cui fa da contrappunto la stentorea interpretazione di Mardones. Grande ballad, che starebbe bene come soundtrack di una telenovela di alto bordo: il refrain esplode in una melodia leggiadra. I cori, a cura di alcune amiche negre di Mangold, sono di gran classe. Sax in grande spolvero e voce ancora roca, che più non si può: un autentico delinquente romantico, il Nostro. Anche qui, lezioso singhiozzo, che fa il verso a certi sentimentali fenomeni da baraccone anni ’50. Qualcuno sostiene che Benny, in queste occasioni, piangesse davvero: saranno pure voci di corridoio, ma noi ci vogliamo credere, al di là di ogni filologismo d’accatto.

“Into the Night” è la track che ogni AORtista vorrebbe scrivere, ma che pochi riescono solo ad immaginare: una sorta di standard, con cascate di “keys” e sezione ritmica da film porno. Scritta con l’altra leggenda, il meticcio R. Tepper, stranamente non presente neppure alle backing vocals, il suo refrain quasi non si stacca dalla strofa: siamo di fronte ad un “continuum” quasi celestiale. Ininfluente la storia del testo, che parla di una sedicenne che forse diverrà una baldracca: ma non interessa a nessuno. “If I could fly/I’d pick you up/And take you into the night”: siamo nella pura mitologia da inoltrata estasi crepuscolare. Anche qui, singulto finale, a sugellare il capolavoro.

“We’ve got to Run” inizia con Benny che caccia delle urla incredibilmente sensuali: sembra quasi Coverdale, ma forse superiore. Si tratta della track forse più dura dell’intero album. Notevole solo di chitarra, anche se brevissimo, a cura di D. Evans. Il refrain è epico: c’è da fuggire, piccola.

“I’ll Be Good to You” è il giusto contraltare alla precedente song: se quella declinava il lato più torbido della passione amorosa, questa ne mette in luce le sfumature più delicate. Tastiere ancora onnipresenti, grande crescendo e refrain a tono. Scritta da S. Kipner e dal signore dell’AOR, M. Spiro.

“If You Loved Me”: tanto per cambiare, il tema è sempre lo stesso. Grande l’”incipit”, quasi jazzato, con le tastiere di Mangold sincopate al punto giusto. Ordinaria amministrazione, ma con questa voce colossale tutto diviene straordinariamente patinato. Grande solo ancora di Evans, che suona come un negro.

La fine del disco riserva le sorprese migliori, come in quelle uova di Pasqua dimenticate chissà dove, dove poi trovi, inaspettatamente, il trenino da collezione.

“Never Far Away”: “incipit” con dialogo tastiere-chitarra da antologia, entra la voce di Mardones: e allora si potrebbero pure chiudere baracca e burattini. Il refrain è una festa del rock adulto: assolutamente trascinante e caratterizzato dalla solita produzione leggiadra. Ottimo lavoro alla batteria di M. Acuna e superbo guitar solo di D. Amato/D. Evans.

“Close to the Flame” è, semplicemente, il migliore pezzo del lotto. Sembra di stare sul set con Rocky, in Siberia, in compagnia di Mickey, la neve, il sudore, Paulie e tutto il resto. Si comincia con un drumming e la voce di Mardones, che canta e parla senza soluzione di continuità, a livelli stellari. Per interpretazione, qui siamo ai livelli, chessò, di un F. Sinatra. Strofa superba, poi arrivano le tastiere di Mangold a introdurre il refrain clamoroso. Solo funambolico di D. Amato/A. Fritsch (altro dotato di una voce spaventosa). In palestra un mio amico, ascoltando questa canzone, una volta alzò trenta kg più del solito. Lo vidi io stesso.

“Run to You” è la perfetta chiusura di un album (quasi) perfetto. Intro notturno, la chitarra stampa un lampo nella notte di Syracuse. Entra Mardones, dapprima stranamente misurato: non ce n’è più per nessuno. Si fottano i Nirvana, che nel frattempo spadroneggiavano al Forte Prenestino (pace all’anima di Cobain). Ancora singhiozzi, cari signori, e poi “I wanna run to you”, e ancora “In the middle of the night”. Notevole lavoro alla chitarra, con effetti, di Evans, mentre del basso, come avrete capito da tempo, qui non frega un cazzo a nessuno.

In due parole, un album in cui i cliché raggiungono profondità omeriche.

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