Sta tutto dentro i primi istanti di «Done»: la linea del basso di Kelly, che interseca in più di un punto quella che Kim tracciava ai tempi della militanza nei Pixies, quando Kelly nemmeno era nata, e pure se suona il basso e il basso è la sezione ritmica, Kelly è la solista del gruppo, quella dotata di talento ed estro musicale, forse ha studiato, ma mi sembra una dote naturale più che coltivata artificialmente; il riff minimale di chitarra imbastito da Georgia, Georgia che non concede nemmeno un assolo, e la sua voce che passa dal lamento doloroso all'urlo rabbioso, abbandonandosi pure ad un vocalizzo che lì in mezzo c'entra poco o niente e invece lei riesce a farcelo stare; il suono grezzo dei tamburi percossi da Sarah, lei appare come quella che ha meno talenti, ma è spigliata e fa la portavoce, pure per le altre due.

«Done» è il pezzo che apre l'omonimo esordio delle Camp Cope e questo piccolo disco esiste soprattutto, se non esclusivamente, grazie al supporto di 5.000 e passa aficionados che partecipano alla raccolta di fondi che Georgia, Kelly e Sarah – cioè le Camp Cope, da Melbourne – mettono in piedi; per cui, sulla paginetta Bandcamp dedicata si srotola una sfilza di sostenitori che non finisce più e sta lì a testimoniare un successo a dir poco inaspettato.

5.000 supporters e loro tre, ovviamente, che ci mettono molto in proprio; e forse è vero che la strada gliel'ha aperta Courtney Barnett, ma loro hanno il gran merito di non essersi adagiate su quel cliché, rielaborando lo stile-Barnett in una versione decisamente più alt-lofi-wave, guazzabuglio di etichette che in qualche modo rende un po' come suonano le Camp Cope.

E come la Barnett, pure Georgia, che è un po' la ragione di esistere e l'anima del gruppo, ha un forte sentimento folksie e la cosa più bella, pure più di «Done», la tira fuori sul finale, quella «Song for Charlie» che sono quasi sette minuti per sola chitarra e voce, semplici, puliti e lineari ma che mi imbrigliano in modo inestricabile; e quasi viene il sospetto che, quando imbraccia la chitarra e fa tutto da sola, è pure meglio che quando ci sono Kelley e Sarah a coprirle le spalle, oppure è il segno che Georgia ha carisma, il giusto per resistere alla timidezza e la tensione che si intuiscono e alla fine si sciolgono in un sorriso disarmante e una risata trattenuta e liberatoria allo stesso tempo.

Ma quello che mi colpisce di più è vederla quando canta, immancabilmente cogli occhi chiusi, e mi immagino che è perché è come se cantasse il suo diario, quel che ha scritto solo per sé e poi, ad un certo punto, ha deciso di condividere; e però, almeno per me, quando mi confesso è più facile farlo ad occhi chiusi, non guardare chi ho davanti, la sua reazione, come quando confessavo i miei peccati al don e la grata impediva la vista, sapevo benissimo chi c'era dietro quella grata ma non vederlo aiutava la confessione; penso che è per questo che, quando canta, Georgia tiene sempre gli occhi chiusi e poi, appena ha concluso l'ultima strofa, li apre e sorride, come se si è tolta un peso; mica come Jim Reid che dava le spalle al pubblico per fare scena, forse lo fa ancora, non so, è da tanto che non seguo Jesus & Mary Chain, non mi sembra una cosa costruita, forse sbaglio, ma me la fa sentire vicina.

In più Georgia sa scrivere storie, le scrive bene e ci mette dentro una gran parte della sua ancora giovane vita, e questo è uno di quei dischi di cui mi sento di consigliare l'ascolto accompagnato dalla lettura dei testi; i primi giorni, sono rimasto colpito dalla bellezza della voce di Georgia e della musica che le Camp Cope ci costruiscono intorno; poi, i testi sono stati indispensabili per scoprire sfaccettature che altrimenti sarebbero rimaste nell'ombra, insicurezza e disillusione, disincanto e amarezza, fragilità, che vengono forse dall'aver visto troppo in troppo poco tempo o forse non sono niente di particolare ma solo il sintomo della gioventuù di Georgia e di tante altre e altri come lei, che però il loro stato d'animo se lo tengono dentro.

Invece Georgia quelle storie sa tradurle in canzoni, che di certo non sono capolavori, ma in questo disco ci sono comunque tante piccole cose belle per davvero: oltre a «Done» in apertura e «Song for Charlie» in chiusura, mi limito solo a quelle di cui ora non so fare a meno, il cambio di tempo finale che trasforma «West Side Story» da dimessa ballata a invettiva in stile riot grrrl o quasi e il fiero incedere di «Jet Fuel Can't Melt Steel Beams» e la chiudo qui, perché ci sta pure un disco nuovo da ascoltare – «How to Socialise and Make Friends» – appena riesco a liberarmi dalla presa di questo.

Per me, una bellissima sorpresa.

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