Rieccomi alle prese con un altro oscuro, dimenticato capitolo del panorama progressivo italiano anni Settanta. Uno degli album in assoluto più rari (e più ricercati) di quella scena, non alla pari con veri e propri oggetti di culto (tipo "Dedicato a..." de Le Stelle di Mario Schifano), ma comunque miraggio di tanti collezionisti del genere come il sottoscritto. Parliamo della prima e unica, omonima opera degli Cherry Five, (non)formazione di cui molti ignorano finanche l'esistenza e titolare di un LP edito dalla Cinevox nel 1976.

Complessa e tormentata, oltreché difficilmente accertabile è la storia di questo "ensemble" dell'underground romano, anche perché le sporadiche note di copertina non aiutano: sono infatti riportati i nomi di soli due musicisti su cinque (il cantante Tony Tartarini, precedentemente conosciuto come Tony Gionta e già vocalist ne "L'Uovo Di Colombo", e il batterista Carlo Bordini del duo "Rustichelli & Bordini"). A completare il quintetto (lo si deduce dalle fonti) erano i tre futuri-Goblin Claudio Simonetti, Massimo Morante e Fabio Pignatelli, qui ancora incerti nella scelta di una propria direzione artistica e lontani da quanto, di lì a poco, avrebbero fatto nella nuova - e ben più nota - formazione.

I più attenti avranno già notato una significativa incongruenza: come è possibile che in copertina l'anno di pubblicazione sia fissato al 1976 quando, già un anno prima, i Goblin avevano dato alle stampe "Profondo Rosso"? Qualcosa non torna: e infatti le registrazioni di "Cherry Five" risalgono al 1974, quando ancora i Goblin non esistevano e Simonetti e soci provavano a dar forma ad una - non troppo originale - variante di Symphonic-Prog smaccatamente anglofila, con debiti riconosciuti nei confronti dei Genesis (più per filosofia che non nella resa sonora, però) e Yes (l'incedere del basso di Pignatelli ricorda molto, molto da vicino analoghe evoluzioni di un Chris Squire).

Il fatto che i nomi dei tre non comparissero nell'edizione originale dell'album si potrebbe interpretare con la probabile volontà, da parte della Cinevox, di non offuscare la crescente fama dei Goblin - gruppo di punta dell'etichetta - andando a ripescare tra gli archivi registrazioni risalenti a un vecchio progetto (peraltro, di un gruppo che non aveva mai suonato dal vivo e che nessuno avrebbe potuto conoscere). Se così fosse, davvero non se ne capirebbe il motivo, visto che l'album in questione (lungi dall'essere un capolavoro, sia chiaro) presenta in realtà diversi motivi d'interesse, tanto da far apparire ingiustificate le perplessità (per usare un eufemismo) di certa critica, che non ha impiegato molto a liquidare l'opera per l'eccessivo ricorso ai sintetizzatori (invero una peculiarità del sound di Simonetti, anche nei Goblin) e la macchinosità percebile nello sviluppo di alcune trame strumentali.

Il prodotto finale, è vero, non brilla in quanto ad originalità, soprattutto considerando i riferimenti al Prog inglese e la quasi totale assenza di quegli accenti, di quelle inflessioni tipicamente mediterranee che avevano rappresentato il fiore all'occhiello di molte nostre formazioni: è un suono austero, "gotico", quello degli Cherry Five, denso di vitruosismi e mirabolanti acrobazie strumentali, e chi ascoltasse l'album senza conoscerne la genesi penserebbe senza esitazioni a un gruppo inglese (anche per via dell'ottima pronuncia di Tartarini, in un panorama purtroppo avaro di grandi vocalist come quello del Prog italico). Considerando quindi la qualità del prodotto, preferisco pensare che la pubblicazione dell'album rispondesse piuttosto all'intenzione della Cinevox di capitalizzare il repentino successo dei Goblin, e semmai il fatto che i tre non fossero accreditati andrà ascritto ad una loro precisa volontà (in altre parole, non volevano che la loro immagine di musicisti fosse associata a quelle registrazioni).

Giustamente, però, negli ultimi tempi il tanto bistrattato "Cherry Five" è andato incontro a una doverosa rivalutazione: lo dimostra anche il fatto che l'album compaia sul sito ufficiale di Claudio Simonetti fra quelli cui è accreditato il nome del tastierista. Rivalutazione a pieni voti, dunque, e album affatto deludente, soprattutto per chi - da attento ascoltatore - sarà capace di cogliere le sottili, profonde vicinanze con certe sonorità dei Goblin, pur nella totale diversità di genere e di discorso artistico (come già segnalato sopra). Simonetti e Pignatelli, in particolare, si mettono in luce da autentici padroni dello strumento, ma neanche Morante sfigura, riservando assoli vertiginosi per tecnica mista a velocità.

Qua e là il suono ricorda qualcosa degli Acqua Fragile di Bernardo Lanzetti, e la resa complessiva sa stupire per qualità impeccabile della registrazione (considerando il fatto che ci troviamo pur sempre di fronte a un prodotto d'archivio) e la professionalità dei musicisti: a cominciare dal sontuoso "opening" di "Country Graveyard", eccellente mini-suite ispirata alla poesia sepolcrale tardo-settecentesca e alle liriche ossianiche, dominata dalla severa maestosità dell'organo (opportunamente coadiuvato dal mellotron) e movimentata dai dinamici fraseggi di una chitarra fluida, "liquida", cristallina (impressionanti le scale discendenti eseguite nella seconda parte).

In tutto sono sei lunghi pezzi, o meglio cinque, per esser più precisi, dal momento che "The Swan Is A Murderer" è articolata in due movimenti: bellissima la prima parte, caratterizzata dal clavicembalo di Simonetti, con qualcosa dei futuri Goblin in chiusura - carillon in primo piano e urla lancinanti in sottofondo; di pari livello la seconda, col basso di Pignatelli in grande spolvero ad eseguire passaggi veloci e "percussivi" e il sintetizzatore ad occupare il finale sopra la ritmica nervosa. La composizione più suggestiva è senz'altro "The Picture Of Dorian Gray" (e il merito è principalmente di Massimo Morante e dei suoi ricami).

"Oliver" (dedicata da Simonetti alla sua band precedente e comprendente una splendida sezione centrale rallentata) e la più sostenuta "My Little Cloud Land" che chiude l'album sono altre due pregevoli parentesi di tecnica e brillantezza narrativa fuori del comune: risalta a tratti la vena più classicheggiante del pianista (non a caso diplomato al Conservatorio di Santa Cecilia e in possesso di una solidissima formazione classica).

Quattro stelle a questa chicca d'annata (la stella che manca è dovuta a quella parziale carenza d'originalità cui accennavo prima) ed ascolto consigliato a tutti i cultori del Prog tricolore e del Pop sinfonico in senso lato.   

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