Affascinato dalla scena rock canadese, acquistai qualche tempo fa on line, a scatola chiusa, questo doppio album dei Chilliwack capitanati da Bill Henderson (uscito nel 1971 ed attualmente disponibile in formato cd), sperando di trovare in questa oscura formazione attiva negli anni ’70 e ’80 qualcosa che mi ricordasse le amate atmosfere di Rush, Max Webster, ed in generale del buon prog rock d’annata.

Dopo qualche settimana il cd arrivò puntualmente a casa mia, pronto per essere inserito nel lettore ed essere sottoposto al mio curioso e trepidante ascolto: le attese furono dapprima deluse, poi riconsiderate, ed infine rimeditate, dato che mi trovavo fra le mani una delle più indecifrabili sequenze di canzoni mai ascoltate in precedenza.

L’album inizia con "Lonesome Mary", rock vigoroso che a tratti ricorda i Creedence Clearwater Revival in salsa canadese, pezzo che davvero non mi aspettavo da un band progressive oriented come dovevano essere i Chilliwack dalle scarse informazioni ottenute in internet: superato lo sconcerto iniziale, il pezzo risultava ben scritto, con un suono molto pulito per l’epoca. La seguente "Eat" era ugualmente spiazzante, dato il contesto in cui il pezzo era inserito: si trattava di un classico brano blues rock, con la voce in bella evidenza, facilmente orecchiabile ma, nel complesso, piuttosto piatto, o comunque non dissimile da altri brani ascoltati nel corso degli anni. Molto bello, anche se non straordinario, il terzo brano, "Rosie", un soft hard dalle inflessioni psichedeliche dalle melodie e dallo sviluppo piuttosto originali, che giustificava, almeno in parte, l’acquisto di un album che fino ad allora mi sembrava piuttosto deludente. Le successive "Ridin’" e "Ride Out", costituivano un dittico maggiormente orientato verso lidi contro rock, con parti acustiche ben rese dalle chitarre e dal cantato dolente: due brani d’atmosfera, non eccezionali ma godibili. "Always" era, invece, un pezzo dall’andatura estremamente rallentata, anch’esso di ispirazione acustica, simile a certi pezzi di Neil Young.

Il secondo disco dell’originario vinile si apriva con "Changing Reels", pezzo che, letteralmente, cambiava la direzione assunta dall’album, spostandosi su convincenti atmosfere progressive: la base del pezzo era fornita da una melodia debitrice dei toni country già assaporati nei precedenti brani, che, lungi dall’arrestarsi nei tre minuti canonici delle precedenti canzoni, si sviluppava continuamente e veniva rivisitata in chiave elettrica dal gruppo, con una splendida parte centrale in cui la chitarra elettrica seguite da cori maestosi ed armonici.

Nel complesso, un album senza infamia e senza lode, bello ma non indispensabile, acquistato più per sfizio che per necessità. Fino ai pezzi successivi.

Le parole non sono probabilmente sufficienti a descrivere i due brani seguenti, "Music For a Quiet Time" e "Night Morning", lunghi pezzi d’avanguardia, sorretti da voci trattate elettronicamente, da un flauto, da un piano di sottofondo, e da una ritmica del tutto assente, eccezion fatta per qualche raro battimani. Il viaggio che attende l’ascoltatore nella mezzora finale dell’album, del tutto stordente, può essere assimilato, si parva licet, alla mezz’ora finale di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick, per il suo effetto straniante e le caratteristiche del tutto inedite dei suoni prodotti dal gruppo, minimalisti e rarefatti fino al parossismo eppure mai cacofonici come i Pink Floyd di Ummagumma o la musica patafisica dei Soft Machine e del primo Robert Wyatt. Si tratta di un sound assolutamente indefinibile, che certi potrebbero assimilare ad una psichedelia di frontiera, ma che, a mio avviso, non può essere costretta in nessuno schema di comodo.

Alla fine dell’ascolto, superata la sorpresa e le prime perplessità di quando udito, cominciavo a intendere il senso dell’operazione compiuta dai Chilliwack: una prima parte dell’album era stata dedicata al riepilogo, quasi enciclopedico, dei sottogeneri rock maggiormente in voga nei primi anni ’70 (blues rock, hard rock, country rock, prog rock, ballad), mentre la seconda parte dell’album veniva destinata alla destrutturazione dei suoni già ascoltati, all’astrazione della canzone ed al suo dissolvimento nel suono prodotto da voce, piano, mani e flauto, in un ritorno alla dimensione panica della musica delle origini, come forse la intendeva il gruppo canadese in quel lontano 1971.

L’album è senza voto, perché non si può classificare l’inclassificabile, ma il suo ascolto è, ovviamente raccomandato a tutti, a prescindere dal giudizio che essi abbiano su questo genere di musica.

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