Soprannominato "The Bloody Boy LP" è uscito nel 1986 per la Viva Records, mille copie stampate e passa la paura. Il secondo parto dell'etichetta romana, improntata sulla scena trance californiana degli anni '80, bissa la qualità della compilation primogenita e ci fa conoscere una band che produce principalmente una musica psichica.

La copertina, e specialmente il retro copertina, disegnata da Claudio Di Giambattista, si affianca all'introspezione sonora. Se poi nel secondo lavoro (il "Green Album" da me già recensito) i Drowning Pool arriveranno al loro massimo, la semi suite iniziale di questo disco, "Ritual Regeneration/Toy Soldiers", apre in due il kindergarten di tutti, addirittura tirandoci indietro sin nel nostro ultimo liquido amniotico.

La voce di Andrew Crane, una delle mie preferite di sempre, cantilena cerimoniali alieni, affogamenti in quelle home pool che luccicano al sole di Los Angeles, da una vista dall'alto che immortala l'espansione a macchia d'olio di quella città che fu l'ultimo baluardo pionieristico, sussurra un battesimo animico, un risveglio di zone di noi stessi accantonate dall'inganno della vita intesa come frizione del corpo con l'esterno. Adam Elesh alla chitarra, Jon Thomas alla batteria, Brett Smith al basso, tastiere e percussioni suonate un po' da tutti, ricamano il resto su un'invisibile tela.

Un mio amico sentendo questa "rigenerazione" ebbe un sogno lucido: gente californiana, surfisti anni '60 che facevano il bagno sulle rive del Tevere e si tuffavano da un pontile, ma il movimento era inverso, uscivano dall'acqua e ritornavano alla posizione di partenza, sorrisi e silenzio al contrario, immagini sgranate come se volessero sparire da un momento all'altro. I "soldatini giocattolo" completano la seconda parte del pezzo che ci fa recuperare la nostra infanzia sommersa.

Una giostra di cavalli turchesi, in "Festival of Healing", ci fa ulteriormente galoppare dentro i nostri ripostigli intimi stimolando con un carillon turbillante il recupero di ricordi felici. L'uso delle percussioni in "Song To the Chumash" traccia una silente preghiera sciamanica attraverso sprazzi d'adolescenza, questa volta non inquieta.

Rotto il ghiaccio con il recupero dei nostri luoghi oscuri si accelera con veemenza verso zone psichiche più sofisticate ed il brano di apertura del secondo lato fa al caso nostro. In "Weaving Petals" i petali di loto si aprono oscenamente in questo balletto spietato contro le nostre immedesimazioni. La regressione ipnotica è coscientemente attivata dai fischietti che irrompono a ribadire che nulla sarà più quello di prima. "Muted Streak" potrebbe rivelarsi la colonna sonora della nostra rredenzione nell'abbandonare un monoteismo ipnotico che pesava come un macigno.

La parte finale della scalata è la più difficile, uno è preso di mira doppiamente da quelle forze che agiscono per tenerci ancorati all'ego: angoscie, paure, insicurezze si insinuano violentemente negli ultimi metri dal librarsi e il tetro tappeto sonoro intessuto da "Art of Waiting" è disturbante. Un "giardino delle delizie" elettronico ci accoglie nell'ultimo brano, "Fired From Within", che inizia cauto e suadente per poi evolvere in un suono aggressivo nel ricordarci che il raggiungimento di una illuminazione non è l'arrivo ma l'inizio di un'altra avventura.

Un disco che con le sue atmosfere spietate ci fa recuperare l'intimo di noi stessi, lontano da giochi psicologici inquisitori.

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