Genere: Fusion

Quello che colpisce ad un primo ascolto è la qualità del suono: mi è capitato raramente di ascoltare un'opera prima di una band con una tale maturità espressiva. Chiariamo subito che il dischetto in questione è uscito nel lontano 1975, ad opera di 4 ragazzotti texani di belle speranze.

All'epoca l'album passò pressochè inosservato, ma quando il chitarrista della band (un tale Eric Johnson: vi dice qualcosa questo nome?) divenne una superstar della sei corde, partì anche la riscoperta agiografica dei suoi primi passi musicali. Va detto comunque che gli Electromagnets erano una vera e propria leggenda nell'ambito underground dell'epoca, e ascoltanto questo piccolo capolavoro si capisce subito il perchè. In Italia sono quasi sconosciuti, per quanto mi risulti, e la cosa non va affatto bene. Premetto che io la fusion non l'ho mai amata in modo particolare, ma con questo album è tutta un'altra storia.

Ok, il suono dicevamo: cristallino, solare, compatto, riesce a trasmettere un tale senso di identità da lasciare spiazzato l'ascoltatore. Ogni strumento traccia con decisione il suo colore che sfuma alla perfezione in un'unica tela bianca, fino a diventare un colore perfettamente uniforme, quello degli Electromagnets. "Hawaian Punch" entra in maniera molto soft, e introduce alla perfezione l'ascoltatore nel mondo di Eric Johnson e soci. La situazione si fa più onirica con "Motion", per riprendere poi groove e velocità con "Dry Ice", brano in cui basso e batteria dominano alla grandissima. "Blackhole" si presenta come un jazzato bello dritto, in cui Eric Johnson fa il bello e il cattivo tempo con lick raffinati e pulitissimi, quando non si accontenta di emozionarci con il semplice suono di una singola nota. "Salem" ci lascia un po' spiazzati: le atmosfere sono più solari, i suoni più colorati e poi, a sorpresa, entra la voce: una voce protagonista in silenzio, che s'inserisce alla perfezione nella costruzione complessa e armoniosa del brano.

D'obbligo citare "Crusade", ultimo pezzo dell'album, che si dilata in divagazioni dai toni e dai colori multiformi. In chiusura poi due bonus tracks live (perlomeno nella versione che ho io dell'album) che testimoniano non solo la strabiliante capacità tecnica del gruppo, ma anche lo splendido feeling che questi quattro texani riuscivano a sprigionare durante i loro concerti. In sintesi un disco che va ascoltato, non solo per l'altra qualità delle composizioni, degli arrangiamenti e dell'esecuzione di ogni singolo brano, ma anche perchè trasmette in maniera chiara e cristallina un'idea di musica sicuramente molto interessante. Devo dire che questa consapevolezza, negli album successivi di Eric Johnson è talmente definita che a volte mi ha quasi spaventato, ma non avrei mai creduto che fin dal suo esordio avesse avuto una visione musicale tanto potente. Nei primi anni '70, su un muro di Castle Creek si poteva leggere "the 'Magnets are the best fuckin' band in the world".

Per carità, non sarà stato il famoso "clapton is god" della Londra di fine anni '60, però è una frase che trasmette molto bene lo stupore e l'emozione che questa fantastica band riusciva a trasmettere.

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