Essere l'ultimo arrivato in un sito come DeBaser da la stessa sensazione di arrivare tardi ad una festa e rendersi conto che le donne più belle sono già state prese.
Che fare quindi, se tutti i dischi dei quali mi sarebbe piaciuto scrivere sono stati trattati abbondantemente? Nelle feste di cui sopra, ci si butta sulle seconde scelte.
Eccomi dunque con la mia birra in mano intento a fiutare l'eventuale preda. Ad un certo punto, dietro una finestra sgangherata, scorgo un ragazzo dallo sguardo malinconico che mi fissa. Si chiama Emitt Rhodes. Cosa si nasconde dietro quella finestra?
Nel 1970, un anno dopo lo scioglimento della sua Band per Teenagers, I Merry-Go-Round; Rhodes si chiude nel Garage dei suoi genitori con gli strumenti e un registratore a quattro tracce, per registrare il suo Debut Album tutto da solo. Nello stesso anno, In Scozia, il baronetto McCartney stava facendo la stessa cosa con il suo primo disco, cosa che ha dell'ironico ascoltando le due opere: sembrano farina dello stesso sacco.
Le riviste di settore incensarono il lavoro del Songwriter dell Illinois, soprannominandolo “The One Man Beatles”. Io lo chiamerei più correttamente “il sosia del sosia di McCartney”, perché dal primo all'ultimo secondo del disco, è chiaro sia nell'uso della strumentazione, che nelle prove vocali, l'influenza del bassista di Liverpool.
Si apre con una frizzante Pop Song pianistica, “With my Face on the Floor”, orecchiabile e allegra.
Si continua su questa falsariga fino a “Long Time to See” che con la sua malinconia e nei suoni addirittura precede le atmosfere che saranno del “Band on the Run” McCartneyano.
“Lullaby”, dolce e sussurrata, sfiora davvero il plagio nei confronti del suo modello; sfiderei chiunque a non scambiarlo per Paul.
Col singolo “Frash as a Daisy” si ritorna ad un clima più ritmato. Il disco scorre piacevolmente, con dei pezzi che risaltano sugli altri (Live Till you Die), fino alla canzone migliore del lotto: “Find Yourself Running”, dove finalmente sembra trasparire dopo tanti, anche se piacevoli esercizi di stile, L'anima dell'artista. Stranamente è l'unico pezzo che sembra influenzato leggermente da Lennon.
In conclusione, mi pare esagerato che qualcuno lo abbia definito uno dei migliori dischi degli anni 70, ma può piacere, e parecchio, a chi si trova a suo agio con quel tipo di Songwriting che non mira a rivoluzioni radicali, ma soltanto a solleticare il palato di chi ama una certa musica orecchiabile.
Nota a parte per il mastering: il continuo Bounce sulle tracce, rende difficoltoso l'ascolto ad orecchi abituati a lavori puliti. Ma questo è puro artigianato, fatto davvero in casa; la resa e a dir poco sporca, ed è un peccato, dato che il talento c'era.
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