C’è già una lunga quanto inutile recensione su questo disco. A dire il vero, del mio genere preferito, ce ne sono tante di recensioni di merda. Credo che alcuni capitoli vadano raccontati di nuovo.

Faster Pussycat, 1987, esordio. Nati a Hollywood l’anno prima, possono essere considerati quelli che hanno contribuito a dare la sculettata sleaze all’hard rock. Subito un chiarimento sul voto e sulla band. Per me suonano da 3, ma hanno un’attitudine da 5. Se è vero che la musica non è solo saper suonare, questo non è un 4 costruito e forzato. È un 4 che ci sta tutto.

La musica. Strafottente rock n’ roll duro, niente di eccezionale ma collocabile socialmente tra la gente scollata, disadattata, barbona. Sussulti da saloon, leccate da bordello, testi fracichi sono lame del coltellino svizzero dei nostri, che non hanno paura di mostrare il lato davvero osè della vicenda glam. Veri e propri inni immortali per glamster convinti ce ne sono almeno un paio, con versi e parole entrati a far parte del gergo, delle insegne e del modo di vivere di tanti avanzi di galera musicali ovunque nel mondo. Due chitarrone, basso, batteria, voce prossima al coma etilico, pianoforte da bettola. Casino, divertimento, edonismo: musica eticamente scorretta, da ascoltare assolutamente. Superati dagli allievi, ma pur sempre maestri di un eros musicale spicciolo e riuscito. Sul lato sonoro potremmo fermarci qui.

Ma devo giustificarvi il 5 all’attitudine. Chi legge le mie recensioni avrà notato che a volte scrivo “questa canzone mi fa pensare a questo o a quello”. Con i Faster Pussycat – e non mi spiego perché proprio con loro – la situazione subisce una inversione. Ci sono momenti di vita in cui, al succedere di qualcosa, mi vengono in mente, anche in maniera sistematica, i brani di questo album. Faster Pussycat è un disco che mi ha fatto vedere bene me stesso, la micragnosità del mio essere bassamente umano, i miei cortocircuiti mentali. Sono un cesso d’uomo anche io e i Faster raccontano al meglio il mio lato forforoso.

Quando la mia donna è incazzata e mi dice “e dai, sto letto non lo rifai mai, ci sono pure peli, ma che schifo ma così non si può”, la seconda cosa che penso dopo lo strangolamento è "Don’t Change That Song", opener di questo disco che ben si attacca al pensiero di “sempre la solita storia, i miei peli li cacci tu”. Quando ciò che vuole attraversare il mio orifizio anale è così stronzo da essere pietra e farmi sudare gocciolone fucsia dalla fronte mentre arie mefitiche bruciano le mucose nasali, la prima cosa a cui penso è "Bathroom Wall", una vera e propria latrina di canzone. Quando affondo e mi lascio affondare in comunicazione calda e orale "No Room For Emotion" suona così bene che l’interrogazione piacevolmente dura più del solito.

"Cathouse" è l’inno mai – e dico mai – mancato nelle mie serate glam. In mano potevo avere una tetta, una chiappa, un bicchiere, una canna o una banconota arrotolata che lei non è mai mancata. "Babylon" la suggerisco vivamente a tutti. Una post produzione ridicola arricchisce questo rockazzo spietato di una voce adolescentesca che a più ripetizioni dice “pussy p-p-pppp- puss-pussycat!”. Quando in estate mi capita davanti la cliente tettona e scollata cosa fa 45 giri nella mia testa secondo voi? E dove guardo lei? "Smash Alley" l’ascolto proprio quando accanto al mio posto guida c’è una bottiglia di Bushmills. "Shooting You Down" la metto quando la mia squadra di calcio stravince a volumi che hanno giustificato una riunione condominiale per il caso “Core-a-core”. "City Has No Heart" masturbazione sulla mitica Pam in giovane età. Glam lei, sleaze il pezzo, trash la mano. "Ship Rolls In" (giuro) mentre suonava in un locale è successo che uno se l’è tirato di fuori e ha cominciato a fare pipì circolare. Che schifo pure per me. "Bottle In Front Of Me" la usiamo spesso per spaccarci prima di uscire senza donne nei preparty sabatici.

Se non è rock n’ roll tutto questo.

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