Introduzione:

Dai più remoti meandri dell’epoca aurea per eccellenza del rock, vale a dire i primi anni settanta, proviene quest’opera una tantum, primo ed unico colpo sparato dal trio britannico dei Fields per la causa della musica cosiddetta progressive.

Contesto:

Siamo nel 1971 e due stimate ed abbastanza note figure nell’ambito della musica progressiva uniscono le loro forze: sono il batterista Andy McCulloch, reduce dalle registrazioni insieme ai King Crimson del terzo album “Lizard”, e il tastierista (prevalentemente organista) Graham Stansfield in arte Field (ah! ecco…) che a sua volta aveva mollato i Rare Bird, quelli di “Sympathy” inopinato successone dell’estate 1970 anche in Italia, dopo il secondo loro disco “As Your Mind Flies By”.

Completa il trio il meno noto e talentuoso bassista, chitarrista e cantante Alan Barry.

Diceva Graham Field (andatosene per altri mondi nel 2017), quando gli chiedevano perché questo progetto non era andato avanti: “Avvenne che alla casa discografica cambiarono da un giorno all’altro tutti i dirigenti, e quelli nuovi non avevano alcuna voglia di averci intorno…”, destino comune a tantissime altre identità musicali che hanno avuto un’unica chance, per poi scomparire.

Punti di forza e lacune:

L’organo Hammond di Graham Field è fra i più gustosi che di possano trovare in ambito rock: gran suono, grasso e viscerale, infilato con tanto buon gusto e misura negli arrangiamenti dei pezzi. Per me che lo seguo da sempre è riconoscibile dal primo accordo, specialmente per il suono.

Il tallone d’Achille della formazione è Barry, cantante così così, né preciso né personale né intrigante.

Vertici dell’album:

L’incipit “Friend of Mine” attrae con un sapido arpeggio d’organo (che suono!) intervallato da stacchi tipicamente progressivi. Quando arriva il canto di Barry, disteso ed esteso ma non entusiasmante come timbro e stile, la canzone si ridimensiona un po’. Finche non torna al proscenio l’incalzare dell’organo. Alla fine resta la migliore del lavoro.

Slow Susan” è uno strumentale minimalista, senza nemmeno la batteria, rarefatto e misterioso un po’ nello stile di “Sympathy” dei Rare Bird, solo che senza parte cantata. Bell’atmosfera.

Over and Over Again” si dilunga strumentalmente alla maniera di Emerson Lake & Palmer prima di introdurre la vocalità squillante ma approssimativa di Barry. E’ organizzato a piccola suite con una seconda parte strumentale che si sviluppa su un ritmo e un’atmosfera completamente diversi da quanto presente in precedenza.

A Place to Lay My Head” si guadagna la citazione nella colonna dei “buoni” solo per il dominante sciabordare dell’organo con tanto di amplificatore leslie. E’ un soul blues trasfigurato dagli inglesissimi musicisti in azione. McCulloch gioca volentieri a fare il Palmer, qui.

Il resto:

While the Sun Still Shines” è scialba, ritmicamente farraginosa.

Nella ballata un po’ liturgica “Not So Good” Fields passa al piano, strumento sul quale è meno incisivo e personale. Le folate di Hammond di interludio già la elevano di grado, ma sono solo momenti.

Three Minstrels” è una specie di marcetta molto british/irish con qualche estemporanea velleità percussiva di McCulloch.

Feelin’ Free” è un pop blues alla maniera progressive, condotto dal pianoforte e dominato dalla voce spiegata di Barry che qui è più efficace che altrove.

The Eagle” è di nuovo uno strumentale in forma di breve suite e dopo un preludio frenetico si distende a sfruttare un giro armonico barocco settecentesco (lo stesso di “Rain and Tears” dei loro colleghi greci Aphrodite’s Child), poi arriva un po’ di chitarra in arpeggio e infine il titillare del piano acustico: tutto molto piacevole e anche… gratuito.

Fair Haired Lady” è il momento di Barry: arpeggio acustico e voce melanconica e tranquilla. Suggestiva e toccante, ma la melodia vale poco e la si dimentica subito.

Giudizio finale:

Mah… bisogna esserci stati dentro in quei momenti per gustarsi questi dischi “minori”, dell’andazzo mainstream del rock di cinquant’anni fa. Oppure essere stati toccati dal sacro verbo, magari rubacchiando ascolti dagli impolverati ellepì dei propri genitori, per avvertire come essenziale l’ascolto e il possesso di queste opere.

Ovvero, se uno è abituato a ripassarsi ogni tanto, sfilandoli dalla propria discoteca e appoggiandoli sul piatto o sul lettore, cose come “Storia di un minuto” della PFM oppure “Greenslade” od anche i vecchi e rispettabili Camel, questa roba va benone.

Bella copertina, fra l’altro. Si sviluppa anche nel retro, col resto delle ali della possente aquila intenta a ghermire il leprotto.

Gli darei un sei (tre stelle), ma scommetto che Tony Pagliuca (vecchio tastierista delle Orme, amico personale e discepolo di Graham Fields) gli darebbe un dieci. Nei primi dischi delle Orme si sente eccome la mano di Fields.

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