Con una copertina così vistosa, di un fucsia capace di attirare pure le api e i calabroni, si presentò alla grande ad inizio 1970 questo quartetto originario di Detroit, Michigan. Eseguivano del rock blues venato di psichedelia (siamo grosso modo dalle parti degli Steppenwolf di “Born to Be Wild”) e questo grazie soprattutto alla chitarra fuzzosa di Gary Ray Thompson, perennemente addizionata di distorsore hendrixiano, affilata e penetrante come un rasoio.
Ed alla grande andò in effetti l’inizio di carriera grazie al terzo(!) singolo prelevato da quest’album, consistente nel rifacimento, l’ennesimo, di “House of the Rising Sun” un motivo folk tradizionale vecchio di secoli e di sconosciuti autori. Era stata portata alle più alte vette nel 1964 dalla passionale interpretazione degli Animals di Eric Burdon (gran voce) e Hilton Valentine (grandioso arpeggio di chitarra in LA minore), ma vi si era cimentato pure Bob Dylan ad inizio carriera, per dire. Successivamente penseranno a tenerla sempre a galla la formosa Dolly Parton, i mezzi francesi Santa Esmeralda… tanti altri, compresi un paio di gruppi metallari. In ogni caso, tornando al decennio dei ‘60, dopo l’exploit degli Animals praticamente ogni paese aveva la sua versione autoctona di questo epocale pezzo (si, anche l’Italia: Los Marcellos Ferial, “La casa del sole”).
La versione dei Frijid Pink è bella psichedelica, colla chitarra distortissima di Thompson che lascia perdere l’arpeggio e picchia invece sugli accordi. La corposa interpretazione rilasciata da questi cosiddetti “Rosa Gelido” sfondò in classifica e sembrava il passo decisivo verso l’addizione di un ennesimo gruppazzo rock blues di successo. Invece i quattro si fermarono alla prima tappa in quanto a grossi riscontri, finendo perfettamente nell’abusata definizione di “One hit wonder”. Riuscirono in ogni caso a pubblicare quattro album, uno all’anno fino al 1973 e poi fine della storia se si escludono i soliti, plurimi tentativi di ripartenza negli anni ottanta, novanta e anche duemila, sotto la spinta del batterista Richard Stevens l’ultimo ad arrendersi alla sorte non benigna.
Punto di forza dei nostri era la voce baritonale blues, leggermente roca e virilmente intensa anche se non del tutto a posto tecnicamente, del frontman Tom Beaudry, il tizio a sinistra in copertina coi pantaloni da carcerato. Mi piace ascoltarla in “God Gave Me You” il brano d’apertura dell’album e senz’altro il mio preferito: bell’arpeggio, bel cantato, bell’assolo in stile Big Brother & the Holding Company.
Anche questo disco, come molti altri di quell’epoca, riserva quel profumo, quel sentore hippyesco, acido, un po’ ingenuo. Per gli anziani nostalgici o per i giovani conquistati dal vintage per quegli anni così prolifici e inventivi (non solo la musica: anche il design, l’architettura, il cinema, tante arti), quest’opera di nicchia nondimeno perfettamente congruente al suo tempo può costituire un sano arricchimento emozionale.
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