Vengono da Goteborg, in Svezia, e questo "omonimo" del 2008 è il loro primo disco. Ma se qualcuno provasse a sostenere che si tratta dell'ennesima rock band di fricchettoni rigurgitata dalla San Francisco di fine anni '60, sarebbe davvero difficile convincerlo del contrario.

Hanno alle spalle una carriera tanto breve quanto intensa, che li ha portati a mettere le mani su un contratto discografico dopo soli pochi mesi di prove in cantina e una manciata di serate nei locali della zona.

La loro ricetta è più o meno la stessa di quella dei vicini di casa Witchcraft e Dead Man: ripercorrere il sentiero del rock anni '60/'70, senza limitarsi a riciclarne gli stilemi musicali, ma riesumandone suoni ed iconografia, capigliature e guardaroba, e, soprattutto, tentando di riproporne l'attitudine e lo spirito. A differenza delle due band citate, però, il quartetto in questione ha saputo mescolare meglio le carte, giungendo a definire fin da subito un sound che, ben lungi dal potersi definire "originale", riesce nell'impresa di rendere meno spudorati i segni della propria derivatività.

"Graveyard", pubblicato all'inizio di quest'anno dalla piccola Transubstans Records, è un disco di distorsioni vintage da rimanerci incollati manco fosse la "220V". Nove tracce di riffage d'annata a cavallo tra hard rock, blues e spunti sabbathiani spogliati delle fascinazioni più oscure e rivestiti a nuovo di un'eleganza spiccatamente soul ("Submarine Blues").

Una piacevolissima passeggiata tra le insidie di chitarre stravolte e inacidite dai wah wha, in compagnia di una prova vocale che in più occasioni strizza l'occhio al Plant più ingrifato ("Satan's Finest"). Giri di walzer à là Cream, che ogni blues man vorrebbe poter danzare al proprio ballo di gala ("Lost In Confusion", splendida...), citazioni improbabili (l'attacco di "Right Is Wrong", che pare addirittura voler andare a scomodare "Summertime"), e una sorta di diffusa, impalpabile psichedelia: presenza discreta e per nulla ingombrante, che non giunge mai a stravolgere la forma canzone.

Il risultato è un disco dal retrogusto piacevolmente torbato, dai colori volutamente sbiaditi, eppure ispiratissimo, dal songwriting raffinato, elegante. Un disco per nulla imbarazzato dalla propria vena nostalgica, pervaso com'è da una piacevolissima ruvidezza analogica, da una guduriosa abrasività di suoni e di voci che ti passano sui timpani come carta vetrata, ma senza fare troppo male.

Un riuscitissimo "deja vu sonoro" per le vie di una città che si pensava di conoscere a memoria e che, invece, pare avere ancora quartieri, piazze e vicoli da scoprire.

Risacche di rock d'annata. Riflussi di una marea che non ne vuole sapere di placarsi.

 

Carico i commenti... con calma