In uscita dai leggendari Colosseum, il talentuoso tastierista David Greenslade forma nel 1971 un gruppo a sua immagine e somiglianza, i Greenslade appunto, chiamando a sé il bassista Tony Reeves, il batterista Andrew McCulloch (già drummer alla corte del Re Cremisi in Lizard) e il tastierista e cantante Dave Lawson. Dalla line up si evince già la struttura particolare di questa band: Greenslade rinuncia alla chitarra a favore del basso e sceglie di sperimentare l'impatto di due tastieristi che lavorino all'unisono utilizzando pianoforte, Hammond, Moog e mellotron.
Il risultato è un rock progressivo tastieristico abbastanza canonico nel suono e nella struttura dei pezzi, ma dall'impressionante e coinvolgente impatto strumentale: Greenslade e Lawson sono ottimi musicisti di stampo jazz rock, e fondono il suono delle tastiere in maniera perfetta; Reeves suona il basso in modo molto particolare, concedendosi assoli, virtuosismi, scansioni ritmiche pazzesche, mentre McCulloch si dimostra un sorprendente batterista, creativo, camaleontico e in grado soprattutto di assecondare alla perfezione gli slanci strumentali dei due solisti principali. Meno efficaci si dimostrano le parti cantate, e anche se Lawson è in possesso di buona voce e buone doti, i testi sono piuttosto banali e i suoi vocalizzi alcune volte non sono troppo riusciti; forse perché egli cerca, coerentemente con l'impostazione del gruppo, di utilizzare la voce più come uno strumento.
Il disco omonimo esce nel 1973, è il loro esordio e si apre con la bellissima Feathered Friends: si parte in maniera solare, con un ritmo frizzante, l'organo allegro e un riff agile di pianoforte, poi entra la voce, il ritmo cala, si espande e il brano diventa riflessivo e maestoso. C'è da dire che qui Lawson canta proprio bene, con acuti e toni più cupi, mentre le tastiere tessono una tela di fondo epica e malinconica, e il basso ricama con sapienza; molto belli i crescendo di organo e voce, ottima la batteria. Stupendo infine l'assolo di mellotron, coadiuvato da organo e basso, verso il finale, che arriva dopo un'ultima strofa cantata. Il secondo brano è la breve An English Western, un vispo strumentale dai sapori jazzati guidato dall'organo che si snoda tra controtempi, rullate veloci di batteria, accelerazioni e rallentamenti mentre il pianoforte "strimpella" allegramente in sottofondo. E' breve, ma mostra innegabilmente la grande classe e bravura dei quattro.
A seguire troviamo un ottimo pezzo, Drowing Man, che inizia in maniera cupa per poi alleggerirsi con un bellissimo riff quasi "liturgico" di organo rintuzzato dal basso. Buona la prestazione vocale di Lawson, perfetto l'ingresso di ritmica e tastiere che innalza un ritmo alquanto elaborato; il brano si fa via via più festoso, si apprezzano incisi di Moog e sul finale un'ottima apertura di mellotron che riconduce al riff iniziale, questa volta ancora più solenne e all'ultima strofa cantata molto bene. Temple Song è caratterizzata da una melodia fiabesca accentuata dal suono gentile dell'organo e da campanellini. La voce parte bene ma si lascia andare in falsetti e acuti poco consoni cantando liriche piuttosto nella norma; c'è un semplice assolo di organo a note acute mentre la batteria rifinisce coi piatti, anche se l'atmosfera non è particolarmente riuscita.
Grandissima prova strumentale viene data in Melange, pezzo dalla struttura abbastanza complicata ma assolutamente coinvolgente: anche qui si inizia in maniera festosa e scanzonata, ma è sorprendete notare l'abilità di Greenslade e Lawson di scivolare con grandissima abilità da toni leggeri a toni più solenni ed epici; infatti il brano è caratterizzato da un tema, espresso in apertura da Moog e mellotron, dal sapore gotico e grandioso che viene ripreso più volte. Dopo due minuti si apre una fase dove, sulla perfetta scansione dei piatti, il basso si ritaglia un intervento solistico straordinario, sostenuto da note fuggenti di tastiere e leggeri incisi corali; un arpeggio sempre di basso da il via a una marcetta dal sapore vittoriano, poi Reeves recupera il tema iniziale, sostenuto dal mellotron, e infine lo passa all'organo, che lo reinterpreta con un bellissimo inciso. Una batteria perfetta e un crescendo di mellotron favoloso conducono il brano alla grandiosa conclusione mentre il basso solista riecheggia con suono distorto. Un pezzo magnifico, suonato alla grande e assolutamente emozionate sotto ogni punto di vista. What Are You Doing to Me è invece piuttosto nella norma: il giro iniziale e i riff di organo ricordano vagamente la sezione Eruption di Tarkus, la batteria è rutilante e un po' rumorosa, la voce concitata e il testo piuttosto banale: evidentemente un amore finito è sempre un buon motivo per sbraitare. Più efficace il minaccioso inciso di mellotron, anche se suona un po' fuori luogo proprio come il finale di organo, che ricorda una musica da luna park.
La conclusione è affidata a un altro bellissimo strumentale, Sundance, aperto da un lungo e struggente giro di pianoforte solista, che limita i virtuosismi ma colpisce per la raffinata efficacia. L'ingresso della ritmica e dell'organo però è potente e quasi minaccioso, con la batteria che martella con precisione assoluta e il Moog che produce riff nervosi in sottofondo; il mellotron contribuisce con vigore all'atmosfera gotica e pregante, mentre basso e batteria procedono con eccezionale perizia sul ricamo incrociato delle tastiere. Dopo cinque minuti si apre un breve intermezzo etereo, poi di colpo la ritmica riparte e come un treno in partenza aumenta gradualmente la velocità sostenendo un assolo di organo indiavolato e velocissimo; accordi profondi di mellotron spianano la strada alla conclusione, dove il pianoforte torna protagonista solitario e si spegne con commovente dolcezza.
L'album è a mio avviso splendido; la capacità tecnica dei musicisti è strabiliante, eppure Greenslade e Lawson non si lasciano prendere la mano da virtuosismi stucchevoli, forse perché a differenza per esempio di Keith Emerson, di tradizione colto-accademica, l'impostazione jazz permette una minore ridondanza e pesantezza. Perfetta l'amalgama di tutti gli strumenti, assolutamente colmata l'assenza della chitarra, eccelso il lavoro del basso solista. In più le emozioni non mancano di certo, soprattutto nei brani più lunghi: il tema epico di Melange è uno di quelli che rimangono per sempre.
Bellissima anche la copertina del grande Roger Dean, sommo grafico progressivo, che dona un tocco fantastico e leggendario ad un piccolo capolavoro celato tra gli immensi labirinti del prog. Un genere tutt'ora vivente e vibrante, il cui valore è dimostrato ancora una volta dall'immortale fascino che è in grado di donarci a distanza di trent'anni.
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