Con questo disco, commercialmente molto fortunato, il gruppo completava nel 1985 la personale, progressiva mutazione musicale dall’Hard + Folk Rock “settantiano” degli inizi, d’ispirazione molto anglofila ed in particolare Zeppeliniana, all’estetizzante e americanissimo AOR (Adult Oriented Rock) “ottantiano”, quasi doveroso all’epoca per restare a galla. Anche la copertina dice molto (ma non tutto), con il quintetto fotografato in studiata posa, agghindatissimo con messe in piega rigonfie, fuseaux, giacche decorate e altre cianfrusaglie oggi così clamorosamente tamarre e demodé. La presenza di due belle ragazze in formazione, d’altronde, aiuta molto, permettendo lo sfoggio di un look glamour quasi senza sforzo. Ed è il successo definitivo per loro, fin lì rimasti un po’ in serie B, né sconosciuti né famosi, ed invece esplosi con questo ottavo (!) album di carriera a vette commerciali, come già accennato, eccelse. Il momento d’oro durerà per tre o quattro dischi, fino ai primi anni novanta: ci penserà la fissa generale per il grunge a rendere prima dura la vita, poi far sbandare e disperdere la formazione (ironicamente, Heart è un gruppo con base proprio a Seattle, patria di Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains e compagnia bella, fra l’altro loro amici ed estimatori).

L’AOR è musica bastarda: gli strumenti pestano duro non osando però una nota o una rullata più del necessario, i ritornelli si preoccupano di restare semplici e accessibili per quanto possano essere stentorei e veloci, gli assoli di chitarra non indugiano quasi mai oltre le otto, sedici battute, le tastiere onnipresenti “tappetizzano” il tutto ed ottundono qualsiasi spigolosità. Tale crossover può rischiare di non accontentare nessuno: i metallari che vorrebbero ben altra rabbia e asciuttezza, i poppettari che sentono a rischio le loro orecchie delicate, i ricercatori del virtuosismo che possono ritrovarsi frustrati dagli strumenti tenuti a freno da ogni autentica scorreria, e via dicendo. Sta di fatto che il genere ha venduto montagne di dischi nella seconda metà degli ottanta, forse troppi: insieme ai pionieri ed ai luminari (Boston, Toto, Journey, Harem Scarem, Foreigner…) ha prosperato, per un certo tempo, tutta una serie di discepoli i cui nomi oggi non dicono nulla (Alias, Bad Habit, BB Steal, Biloxi, Blue Tears, Caught In The Act, Damn Yankees, Don Patrol, Drive She Said, Eyes, Fair Warning, Giant, Glass Tiger, Hardline, Jagged Edge, Just If I, Loverboy, Promise, Prophet, Quarterflash, Roadhouse, Shy England, Signal, Starship, Storm, Storming Heaven, Strangeways, Tall Stories, Tour de Force, 21 Guns, Unruly Child, Valentine, Vendetta, Von Groove, Wild Horses, Wings of Steel…), ma ciascuno dei quali ebbe il suo momento di gloria, visto che le case discografiche concedevano in quegli anni una chance a chiunque provasse ad adulterare l’hard rock con ritornelli orecchiabili.

Gli Heart non possono essere considerati formazione d’elite nell’AOR, a ragione della loro scarsa attitudine a livello di songwriting e della tendenza ad appoggiarsi stilisticamente a modelli già sviluppati da altri: ad esser cattivelli, si può semplificare affermando che negli anni ottanta il gruppo intese passare progressivamente dal riciclaggio dei Led Zeppelin a quello di Foreigner e Journey. Ma vi sono anche degli aspetti eccellenti nella loro musica: primo fra tutti, la suprema voce di Ann Wilson. Le sorelle Wilson (la mora Ann, voce solista e la bionda Nancy, chitarra e seconda voce) non sono nel gruppo a far le belle fighe, anche se certo non guasta. Nancy suona perfettamente la chitarra d’accompagnamento, specie quella acustica, Ann è poi un vero e proprio mito negli USA: timbro stupendo, potenza ed estensione paurose, temperamento e generosità proverbiali l’hanno da tempo inserita nel novero delle grandi cantanti d’America, curiosamente fra le meno “esportate” nel resto del mondo. Essì che da quelle parti la conoscono anche vecchi e bambini. L’espressività adulta e intensa di Ann si adatta perfettamente alla svolta AOR del suo gruppo. A suo agio nei rock più scatenati (si fa per dire) come nelle ballate più accorate, la sua interpretazione sempre risoluta e drammatica dona intensità anche agli episodi più leggeri e “di cassetta” (in quest’occasione “Never” e “Nothing At All”). L’abitudine ad esprimersi sempre al limite, senza risparmiarsi, le consente escursioni pazzesche e virtuosistiche verso tonalità proibitive, prese senza l’ausilio del falsetto e quindi con una forza ineguagliabile. Per chi sa cosa vuol dire cantare, anche dal punto di vista tecnico, la Wilson non può che costituire un punto di riferimento.

Sua sorella Nancy è invero un poco svantaggiata dall’andazzo elettrico e “tastieroso” del pop rock sposato in questa fase dal gruppo, lei che con la sua destrezza alla sei ed alla dodici corde acustica, nonché al mandolino, svettava in quegli episodi folk-hardrock che facevano tanto “Led Zeppelin III” (devastante a questo proposito la riproposizione dal vivo, frequentemente in scaletta nei concerti degli Heart, della gemma folk del Dirigibile “The Battle of Evermore”, colle due sorelle a cantare le parti di Robert Plant e Sandy Denny, e Nancy a pestare sul mandolino come e meglio di Jimmy Page: da brivido). La bionda chitarrista si rifà alla grande prendendo la voce solista nel brano migliore (o almeno il mio preferito) del lotto, “These Dreams”, ballata romanticissima e intrigante elegantemente arrangiata su tappeti di tastiere e piccole percussioni. La voce di Nancy, abitualmente molto pulita e “piatta”, si arricchisce per l’occasione di una leggera rochezza, dovuta pare ad un incipiente, concomitante raffreddore, che le dona un fascino irripetibile mentre descrive sofficemente la bellissima melodia, opera di penna esterna al gruppo come d’altronde molti altri episodi del disco. I meriti di scrittura vanno infatti equamente divisi fra il compositore Martin Page ed il paroliere, di EltonJohniana frequentazione, Bernie Taupin, i quali avevano inizialmente concepito la canzone per Stevie Nicks, ripiegando poi su di un’altra bionda visto che alla prima non era piaciuta. “These Dreams” costituì anche il primo singolo tratto dall’album e schizzò in cima alle classifiche, con il rispettivo video in heavy rotation su MTV per mesi (anche in Italia, ai tempi di Disco Music) e facendo perciò “rosicare” alquanto la minuta e pepata cantante dei Fleetwood Mac. L’apertura del disco è affidata alla canzone più grintosa fra le dieci presenti, intitolata “If Looks Could Kill” nella quale è concesso insolito spazio supplementare alla competente chitarra solista di Howard Leese, che interviene puntualmente ogni qualvolta Ann rifiata, attirando efficacemente l’attenzione su di sé grazie al bel fraseggio, ficcante e insieme melodico, da lui dominato.

La formazione a quintetto è completata dalla sezione ritmica, formata da Danny Carmassi ai tamburi (rinomato picchiatore, ex-Montrose e Sammy Hagar, nonché futuro Coverdale-Page e Whitesnake) e dal pure lui biondo Mark Andes, un tizio veramente eclettico giacchè si è permesso di suonare il basso da ragazzino nei bluesofili Canned Heat, da giovanissimo negli psichedelici Spirit di Randy California e da giovanotto nei campagnoli Firefall, prima trovare ingaggio con le due sorelle. Al presente, le inseparabili Wilson sono ancora sulla breccia, con altri compagni d’avventura e con il gruppo Heart che, passata da tempo la gloriosa ed estetizzante stagione di vent’anni fa, ha riguadagnato il suono hard rock degli inizi, più asciutto e venato di folk (e più sincero e sentito) con la sempre graziosa Nancy a ricamare ed arpeggiare spesso e volentieri, come lei sa, sugli strumenti acustici. La sorella Ann, da molti anni in qua copiosamente appesantita nel fisico da eccessive libagioni e bevute, se pure ha perso gran parte della sua avvenenza ha conservato comunque le fenomenali capacità vocali e interpretative di sempre. Doti a disposizione di tutti nei molti dischi della formazione, compresa quest’opera che, pur non essendo probabilmente la loro migliore, è storicamente e commercialmente in precisa evidenza nella loro carriera.

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