Per la gioia di chi reputa il progressive "immondizia", torna quel fissato di Testaverde con la recensione di un altro di quei gruppi di genere i cui membri, nell’Italia degli anni ’70, non riuscirono probabilmente a vendere un proprio disco nemmeno ai parenti più stretti o agli amici più fidati. Fortunatamente, però, la misura della validità di un lavoro commerciabile non si esprime necessariamente in positive statistiche di mercato: risulterebbe altrimenti quantomeno strano che degli autentici fenomeni del virtuosismo tecnico come gli Area o la PFM si trovarono costretti, fin da subito, ad emigrare fuori penisola per trovare il credito negato loro in patria.

Sorte ancora più ingrata toccò, viceversa, a decine di altre band che, a differenza di quelle sopra citate, perlomeno longeve, godettero senz’altro di vita più breve, ma dalla loro ebbero entusiasmo e forza necessarie per uscire allo scoperto, seppur in un territorio ostile e indifferente. Proponendo lavori, tra l’altro, che pur restando fedeli ad una linea direttiva più o meno univoca, retaggio dei grandi capofila britannici (Jethro Tull, Genesis e King Crimson in particolare), seppero sviluppare tematiche inedite ed originali : tra questi, un posto di rilievo compete senza meno a Il Paese dei Balocchi che, se possibile, nel loro omonimo – e unico – concept- album fecero anche di più, fondendo in un unico insieme metafisica – con evidenti richiami alla filosofia - e onirismo – con il tentativo di dare forma e sostanza ad un luogo di fantasia, il Paese dei Balocchi, appunto. Una sorta di ibrido tra Quella vecchia locanda e il Museo Rosenbach : più strumentale che cantato, esecuzioni – e registrazione – impeccabili ed effettivamente la sensazione per l’ascoltatore che la collocazione dei paesaggi evocati risieda davvero fuori dal tempo e da qualunque cartina geografica, magari dietro una cortina di spessa nebbia per dissipare la quale serva l’orecchio e la sensibilità di chi ami questo genere e non spenga lo stereo dopo i primi minuti di audizione.

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