Girovagando per i labirintici sotterranei della Swinging London di fine anni '60, non è raro imbattersi in oscure ed insolite formazioni, poco conosciute dal grande pubblico ma indicative (a loro modo) delle tendenze in atto in quell'epoca tanto densa di rivolgimenti, musicali e non solo; formazioni spesso e volentieri incapaci di raggiungere la soglia del secondo 33 giri per carenza d'ispirazione, o anche perché negativamente condizionate da contratti discografici poco vantaggiosi. Numerose sono le etichette specializzate in materiale "underground" che vedono la luce in quel periodo, talvolta anche guidate d

a brillanti e ambiziosi manager ma inevitabilmente condannate al fallimento, nel giro di pochi anni (se non mesi), dalla scarsa risonanza suscitata dal materiale proposto. Fra queste etichette, una menzione particolare merita la Stable Records, capace di scritturare artisti del calibro dei Deviants e di Sam Gopal (il leggendario "Escalator" fu edito per l'appunto dalla casa in questione), con particolare riguardo verso le nuove proposte Hard Blues con propensioni "dark": genere in ascesa, questo, nel 1969, quando ancora debbono esordire su disco Black Sabbath e Atomic Rooster, e mentre emergono sulla scena gruppi, come la Aynsley Dunbar Retaliation, saldamente ancorati alla matrice stilistica del British Blues più classico ma già inclini, specie nell'uso della voce e nell'aggressività di alcune soluzioni ritmiche, alle istanze di certo Hard chitarristico che di lì a poco farà proseliti.

Fra i (pochi) gruppi che esordirono per la Stable in quel fatidico 1969 ce n'è uno particolarmente misterioso, noto solo ad una ristretta cerchia di maniacali collezionisti, e che ho il piacere di ricordare in questa sede: i Jaklin, anche se forse sarebbe più corretto parlare del gruppo guidato da tale "Jaklin", curioso pseudonimo di un personaggio la cui reale identità rimane a tutt'oggi ignota; di lui conosciamo solo il volto (dato che è presumibile sia lui il soggetto fotografato in copertina mentre sfoggia un classico look anni '60), e sappiamo che si tratta di un chitarrista, come informano le indispensabili note di copertina: un chitarrista palesemente ispirato allo stile di Eric Clapton con i Bluesbreakers di John Mayall, interprete di un fraseggio limpido, netto, pulito, privo di eccessive asperità; un Blues ortodosso, "accademico", si dirà, in perfetta sintonia con uno stile vocale che certo non brilla in quanto ad originalità, ma che si lascia comunque apprezzare per gli accenti, garbati, suggestivi, anch'essi decisamente "claptoniani". Ad accompagnare l'anonimo Jaklin è un musicista viceversa molto noto, già membro della Grease Band di Joe Cocker e, più avanti, anche della Aynsley Dunbar Retaliation: mi riferisco al pianista Tommy Eyre, ideatore ed esecutore dell'arcinota introduzione organistica alla leggendaria rilettura cockeriana di "With A Little Help From My Friends". Eyre (scomparso ancor giovane nel 2001) era musicista dal tocco pianistico marcatamente jazzato, e decisivo è senz'altro il suo contributo strumentale all'album in questione. I restanti membri di quello che (almeno al momento dell'uscita del disco) era un quartetto sono il bassista Andy Rae e il batterista John Pearson (doveroso ricordarli per onore di cronaca, benché i loro nomi dicano francamente poco).

L'apertura è all'insegna del virtuosismo strumentale di Eyre, che impreziosisce con vorticose scale Blues il quasi-Gospel della tradizionale "Rosie"; il brano viene quindi sfumato all'improvviso dopo neanche due minuti (la qualità della produzione non è certo eccelsa) per passare alla parentesi più interessante dell'intero album: la soffusa e sensuale ballata "Song For Katherine", carica di tensione interpretativa ed immersa in un'atmosfera generale di sfuggente mistero. Interessante la personalissima e breve versione di un altro blues traditional, quella "Early In The Morning" che lo stesso Clapton inciderà nel 1978 su "Backless"; gradevoli le soluzioni semi-acustiche di "Look For Me Baby", mentre "Just Been Left Again" è un canonico slow blues minore in dodici battute. Il lato B comprende un doveroso omaggio al padre del British Blues, Alexis Korner, omaggio che passa attraverso la ripresa di un brano meno noto del suo repertorio, "The Same For You"; "Going Home" non è il pezzo dei Rolling Stones, ma un ritmato shuffle su sfondo di chitarra acustica; "I Can't Go On" è pura routine, mentre in "I'm Leaving" ci si sposta su sonorità più vicine all'Hard Rock; chiude la cover di un altro immortale standard del Blues, una "Catfish" non certo all'altezza delle migliori versioni di Taste e Canned Heat, ma comunque interpretata col giusto piglio e significativa personalità.

Quattro stelle per un album che ha il gusto della musica "fatta in casa": una "chicca" d'annata consigliabile agli amanti del British Blues in tutte le sue varianti. 

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