Per molti è semplicemente "la musica di Quark". Qualcun altro non si accontenta e la chiama "la musica di Piero Angela", appioppando in tal modo altri duecento anni di età al nostro già stagionato divulgatore scientifico, che tra un po' un secolo ce l'avrà per  davvero… Quelli che vogliono fare i colti sparano un laconico "E' Bach !", e in parte ci azzeccano, anche se in realtà ciò che stanno ascoltando è un gruppo di vocalisti jazz noto negli anni '60 come Swingle Singers, che in un disco dal titolo significativo ("Jazz Sebastian Bach") si dilettò a sostituire alle parti strumentali di molte partiture bachiane un intreccio di abili vocalizzi, con risultati in qualche caso ottimi, come in quella che sarebbe poi diventata la sigla di Quark, ossia una versione seria e rispettosa della sublime "Aria sulla quarta corda" di Johann Sebastian Bach.
 
Dato il miracoloso equilibrio e la serenità olimpica di questo pezzo di musica immortale verrebbe la tentazione di unirsi a quelli che dicono "E' Bach !" facendolo piovere dal cielo come il frutto di un divino lampo di genio, di un'ispirazione assoluta, effimera come la felicità. Ma è meglio vedere le cose, per dirla alla sindacalese, "inserite nel loro contesto", se non altro per accorgersi che l'"Aria" è solo la pietra più preziosa incastonata in un gioiello complesso e affascinante come la Suite Orchestrale n° 3, e che a sua volta tale gioiello fa parte di una collezione di ben quattro Suites, di cui il disco in esame contiene le prime tre.

Abituati come siamo ad immaginare il testone massiccio di Johann Sebastian Bach intento ad elaborare severe, geometriche trame di contrappunto, musica assoluta e atemporale, rischiamo di non comprendere il suo aspetto "mondano", di uomo del suo tempo, ma è proprio a quest'ultimo che fanno capo molte opere originali e di qualità eccelsa, tra cui hanno un posto di rilievo le Suites Orchestrali. Il modello è indubbiamente quello della Suite secentesca, detta anche "lullista" con riferimento a Giambattista Lulli, musicista di corte per eccellenza, più noto come Jean-Baptiste Lully, un po' perché già allora faceva molto chic, ma più che altro perchè era al servizio del re di Francia Luigi XVI. E la Suite alla francese doveva essere di gran moda anche nella remota Germania settentrionale se perfino il tutt'altro che frivolo Bach ne adottò la struttura per le sue Suites, composte in occasione di celebrazioni o festività particolari, durante le quali nobili, potenti, cortigiani e ruffiani vari sciamavano in saloni grondanti di lusso sfacciato (si era in pieno Barocco) passando da una danza all'altra, e in genere alternando quelle più sfrenate (per l'epoca, si capisce) a quelle più dolci e sensuali (sempre per l'epoca, si capisce ancora di più). Ed è proprio questa successione di brani veloci e lenti che possiamo ritrovare nelle sequenze delle Suites, a volte anche all'interno dello stesso movimento. Per esempio nei "Minuetti 1 e 2" della prima Suite si fronteggiano due minuetti diversi, uno più agile e ballabile, che apre e chiude il brano, l'altro più pacato, posto nel mezzo come una pausa di riflessione, o forse più prosaicamente ideato per far riposare i ballerini. Un tratto comune alle Suites è l'Ouverture, il cui scopo era di annunciare con una certa pompa la serie delle danze. Qualche ingegno volpino ha ritenuto opportuno chiamare Ouverture l'intera Suite, contribuendo a creare non poco casino. Più comodo dare questo nome al solo pezzo iniziale di ogni Suite, a sua volta tipicamente tripartito: avvio lento e maestoso, fuga centrale movimentata e chiusura che ripropone il tema di partenza. E' chiaro che nella fuga centrale Bach sprigiona il suo genio contrappuntistico con trame e sovrapposizioni che il povero Lully neanche si poteva sognare, ma per il resto c'è una certa fedeltà a questo schema fisso, che pur ripetendosi non intacca minimamente la personalità di ogni Ouverture, che poi si riflette nell'intera Suite.

Pur essendo all'incirca contemporanea delle altre due, la Suite n° 1 in do maggiore BWV 1066 appare come la più arcaica, quella in cui più si colgono gli echi della musica di corte del '600. Fin dall'Ouverture trionfano gli archi, il cui impasto con il clavicembalo regala un suono ricco, capace da solo di evocare il lusso dei saloni da ballo per cui queste musiche sono nate. La parte fugata ha un avvio brusco, che spiazza l'ascoltatore, praticamente senza soluzioni di continuità con il tema che la precede. Quasi altrettanto all'improvviso si spegne e lascia spazio ad una perentoria chiusa. Questo incastro apparentemente forzato della fuga all'interno dell'Ouverture si ripete in tutte le Suites, ma non ne pregiudica affatto la bellezza, anzi serve ad animarle ulteriormente. Altri pezzi notevoli sono la breve e delicata "Forlana", i già citati due "Minuetti" e i due eleganti "Passepieds", il cui nome deriva dal fatto che ad un certo momento di questa danza i piedi dei due ballerini si toccavano, cosa per alcuni di inaudita lascivia. A volte nelle parti centrali di queste danze gli archi tacciono e Bach dà sfoggio di un insospettato umorismo musicale con deliziosi dialoghi tra i fiati, in particolare tra il serioso borbottio del fagotto e la penetrante, acuta cantilena dell'oboe.    

La Suite n° 2 in si minore BWV 1067 vede il flauto grande protagonista, con un ruolo così centrale da anticipare in qualche modo i futuri concerti per questo strumento. Delle tre è nel complesso quella che già in partenza sembrava concepita per andare ben oltre il suo scopo immediato di musica per grandi occasioni, anche se poi alla resa dei conti il destino, assolutamente meritato, di entrare stabilmente nel repertorio concertistico avrebbe accomunato tutte le Suites. La stessa Ouverture rispetto alle altre si presenta un po' meno imponente, ma melodicamente più ricca e interessante. Molti preziosi e brevi saggi di intimismo al limite del cameristico sono sparsi in questa Suite, a cominciare dall'ipnotico "Rondeau", con splendido duetto tra flauto e orchestra, per passare alla meditabonda "Sarabande" che a dispetto del nome è un lento per eccellenza, e quindi alle energiche "Bourrées 1 e 2", parenti non troppo strette di quella per liuto che a suo tempo incantò i Jethro Tull, e per finire con la saltellante "Badinerie", un breve e alato frullio di gioia, trasformatosi chissà come in un "must" delle delle suonerie per cellulari.

Nell'Ouverture della Suite n° 3 in re maggiore BWV 1068 si celebra il suono sfavillante delle trombe barocche, così denso e caldo da parere dorato, non meno scintillante delle decorazioni dell'epoca. Un suono esaltato dal rombo dei timpani, che fa di questa Ouverture senza dubbio la più potente delle tre, l'introduzione ideale per quello che è il suo esatto opposto, la lieve, infinitamente melodica "Aria sulla quarta corda", che almeno nell'originale è dominata dal canto del violino (donde il nome) appena sostenuto da un morbido pulsare degli archi più gravi. Difficile immaginarla danzata da qualcuno: è fatta esclusivamente per essere ascoltata, sognando ad occhi aperti. A svegliarci dall'incanto provvedono le esplosive "Gavottes 1 e 2", che ripropongono la prepotente forza di trombe e timpani, come del resto fa anche la vivace "Giga", che chiude questa Suite come un sigillo di qualità.

Non resta che consigliare un orchestra che ci possa accompagnare adeguatamente in questo viaggio nell'eleganza e nella grazia di tempi lontani. Per quanto da qualche anno siano di moda i puristi, che cercano di ricostruire il suono dell'epoca con organici limitati e strumenti originali, l'imponenza di queste opere può essere resa anche da un'orchestra più classica. Per quanto mi riguarda resto fedele alla magistrale interpretazione del 1961 di Yehudi Menuhin, qui in veste di direttore d'orchestra (la Bath Festival Orchestra) ma più noto per essere stato uno tra i più grandi violinisti del secolo appena passato, uno che conosceva il suono del violino e di tutti gli archi come le sue tasche, e qui si sente.        

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