Un incubo. Una visione terrificante, quasi irreale nel proprio brutale realismo. Una collezione di fotografie, di appunti sparsi, di pagine di diario stropicciate e dense di ricordi agghiaccianti, di paranoie castranti, di umiliazioni ancora troppo vivide per essere dimenticate. Il primo album dei Korn è questo e molto di più: uno sguardo spietato e feroce nell'infanzia e nell'adolescenza di Jonathan Davis, uno che ha imparato presto a fidarsi solo di se stesso dopo essere stato preso a calci dalla vita fin dalla prima volta in cui ha visto la luce del sole. La voce dei suoi compagni di scuola che lo chiamavano "checca" ("Faget"), i genitori insensibili davanti alle sue disperate richieste d'aiuto dopo che un vicino di casa l'aveva molestato ("Daddy"), la sua tossicodipendenza ("Helmet In The Bush") e l'episodio di uno skinhead che l'aveva insultato e minacciato ad un concerto ("Clown") sono solo alcuni dei frammenti che compongono questo inquietante mosaico di dodici canzoni, un affresco di dolore e rabbia in cui si riconoscono migliaia di adolescenti in tutto il mondo.

La batteria di David Silvera pesta in modo ossessivo e fastidioso, il basso di Reggie "Fieldy" Arvizu ne sottolinea la martellante ferocia e le chitarre di James "Munky" Schaffer e Brian "Head" Welch ruggiscono minacciosamente avviluppando il tutto in una densa coltre di furibonda angoscia. Nei loro crudi psicodrammi funk-metal si sentono echi di Helmet, Pantera, Rage Against The Machine, persino di Metallica e Sepultura ma l'enfasi è tutta sulla storia, sullo svolgimento del "racconto", sulla sceneggiatura di questi estenuanti esercizi di catarsi psichica: Jonathan Davis è un animale che ruggisce, miagola, geme, sussurra ingabbiato nel proprio disperato malessere, gli altri lo accompagnano con suoni abietti e infernali, e infatti la band riesce a diluire le proprie influenze musicali utilizzando la più valida freccia al proprio arco: quella della talvolta insostenibile tensione psicologica di cui quest'album è intriso.

Le liriche di Davis raramente fanno uso di metafore o di altri espedienti poetici, più spesso raccontano con linguaggio aspro e asciutto le turbe che tormentano la sua anima, si fa grande uso di espressioni volgari ma siamo lontani dalla caciara gratuita di band che verranno dopo come i Limp Bizkit. Qui tutto, ripeto, è funzionale alla storia stessa, non un riff, non un vocalizzo, non un battito viene sprecato. Il culmine di questa maniera di agghiacciante impatto psicologico è "Daddy", un dedalo di ricordi d'infanzia e visioni claustrofobiche, tra i grugniti assordanti delle distorsioni, il canto disperato di Davis che si trasforma ben presto in pianto incontrollato ed echi di canzoni per bambini.

E' un quadro di proporzioni spaventosamente immani, l'atto ultimo dell'auto-flagellazione di Davis. E, per quanto mi riguarda, la conclusione del punto più alto della carriera della band. "Korn", è rabbia, onestà, disperazione, ma anche voglia di riscatto. Gli album seguenti (ad eccezione di "Issues") saranno a mio avviso blandi e poco innovativi, semplici episodi di riciclaggio di un sound originale e fantasioso. Mi piace però pensare che ci sono capolavori come questo, anche se pochi nel loro genere sono riusciti ad eguagliarlo.

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