«Ma a chi vuoi che interessi il primo disco dei Little Feat» mi dico, già non sono in tanti quelli che li conoscono. Poi però ci penso, e ripercorro i momenti che hanno fatto crescere
ascolti sempre più frequenti, fino alla compagnia quasi onnipresente degli ultimi tempi.

Partiamo quindi dalla copertina: indefinita ed evocativa, una specie di acquerello. È puro stile Little Feat, eppure abbastanza distante dall'immaginario classico, quello di "Sailin' Shoes" e
"Dixie Chicken" per intenderci. C'è una linea orizzontale netta, a tagliare il cielo e la terra, con quattro figurine che sembrano capitate lì per caso senza bene sapere il perché.

Questo è un disco come tanti se ne pubblicavano negli anni '70, un'epoca in cui già dalla copertina potevi capire se un album ti piaceva o no.

E con la musica come la mettiamo? Ne avevo lette diverse prima di prendere in mano il disco. "Exile on Main Street", Zappa...ovviamente mi aspettavo anche qualcosa dei Little Feat canone classico, quello di "Sailin' Shoes" - "Dixie Chicken" - "Feats Don't Fail Me Now". Mai, mai leggere un disco prima di ascoltarlo! E va da sé che pure della copertina c'avevo capito poco, mai stato molto bravo con le immagini d'altra parte. Insomma, qui dentro non ci trovate niente di tutto quello che abbiamo ascoltato, e amato, dei Little Feat. Quindi sgomberiamo il campo,perché abbiamo a che fare con un disco blues. Certamente non il blues canonico che suonavano i Canned Heat, direi decisamente più vicino ai primi episodi di Ry Cooder (che lascia la sua firma in Willin e Forty-Four Blues) e Taj Mahal, distante anche dalle magnifiche e successive derive southern funk. Lowell George lo domina per larghissimi tratti con la sua slide, la quale è a tutti gli effetti il quinto membro del gruppo.

C'è grande varietà armonica nelle canzoni, cosa che non succederà nei dischi successivi (i LF impareranno la lezione, e asciugheranno stile e idee), perché gli accordi seguono le frequenti
alterazioni melodiche. Questo le rende difficili al primo ascolto, il che è abbastanza insolita per un disco blues, ma a conti fatti è anche l'aspetto che le rende uniche. Il blues resta la
matrice, ma senza i tradizionali passaggi prima - quarta - quinta in primo piano, e gli intarsi sono affidati al genio di LG tanto quanto alle tipiche bizzarrie zappiane di un combo
spericolato e ispiratissimo
. È questo l'album con la prima versione di Willin (inferiore a quella su "Sailin Shoes"), con il già citato Ry Cooder e il canto di Lowell mezzo tono sotto. Le fa
compagnia la sorellina I've Been the One, sistemata a fine disco, una bella ballata che segue le già abbastanza iconiche Truck Stop Girl e Brides of Jesus. Il resto sono favolose cavalcate
hard blues formato bonsai, assalti all'arma bianca condotte da gente che non ha paura di niente, teniamo presente che questi erano stati svezzati da Zappa&Beefheart. Visto che a me piace sempre cercare un collegamento in tutte le opere, trovo che il fil rouge di questi solchi abrasivi sia la chitarra di Lowell: sarà ovvio, ma mi sembra giusto ribadirlo. Ci sono soli ustionanti in Strawberry Flats, Crack in Your Door e Hamburger Midnight, in assoluto la mia preferita, roba che farà spellare le mani agli appassionati. Nel marasma delle varie correnti sfiorate (un pizzico di funk, presagi southern, soul velato), ogni tanto fa capolino persino un afflato gospel, che si incastra alla perfezione con i testi da outlaw che percorrono un po' tutto il disco - già al suo esordio la visione di Lowell era ben chiara, si sentiva un diverso, e come tale fuorilegge figlio della controcultura che aveva scompigliato tempi e modi poco prima. Willin ne rappresenta la poetica, e ne è il testamento. Disorientato e gettato a forza in mezzo a un deserto, con sopra un cielo azzurro e una slide in mano, senza bene sapere il perché.

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